giovedì 20 gennaio 2011

La Lingua dei segni . Tesina di Gabriella Grioli ( prima parte )

LA LINGUA DEI SEGNI


La lingua dei segni non è una forma abbreviata di italiano, una mimica, un qualche codice morse o braille, un semplice alfabeto manuale o un supporto all’espressione della lingua parlata, ma una lingua con proprie regole grammaticali, sintattiche, morfologiche e lessicali. Si è evoluta naturalmente, come tutte le lingue, con una struttura molto diversa dalle lingue vocali, più comunemente conosciute, che utilizza sia componenti manuali (es. la configurazione, la posizione, il movimento delle mani) che non-manuali, quali l’espressione facciale, la postura, ecc. Ha meccanismi di dinamica evolutiva e di variazione nello spazio (i “dialetti”), e rappresenta un importante strumento di trasmissione culturale. È una lingua che viaggia sul canale visivo-gestuale, integro nelle persone sorde, e ciò consente loro pari opportunità di accesso alla comunicazione.


La LIS (Lingua dei Segni Italiana) è una delle tante lingue dei segni diffuse nel mondo su cui esiste ormai una considerevole letteratura, ma che stenta a trovare riconoscimenti e spazi, non solo giuridici, ma nello stesso immaginario collettivo. Questo sia in virtù dell'inferiorità di status che il gesto ha assunto rispetto alla parola nel sistema concettuale occidentale, sia perché non viene "trattata" da lingua ma come oggetto rispetto al quale assumere posizioni pro o contro. I segni raccontano: relazioni che dimostrano come la LIS non sia solo la lingua "delle persone sorde", ma rappresenti una dimensione preziosa in contesti complessi e diversificati: comunicazione, supporto didattico, risorsa per l'integrazione e per l'accessibilità, strumento di lavoro per molteplici professionalità. Questo libro, nato da una selezione delle ricerche, esperienze, proposte e sperimentazioni presentate in occasione del 3° Convegno sulla Lingua dei Segni Italiana, racconta di una lingua che è parte della vita di molte persone sorde e udenti e, proponendosi come strumento di lavoro per chi si occupa a diverso titolo di sordità, lingua dei segni e comunicazione, si dipana intorno a quattro tematiche: i profili professionali in evoluzione; la LIS come risorsa; le esperienze di bilinguismo e integrazione; i diritti, i servizi e l'accessibilità.

Può essere capitato di vedere persone sorde che usano le mani muovendole nell’aria. Non stanno cacciando le mosche, ma stanno comunicando tra loro: quei movimenti sono parole, affermazioni, insomma sono dei discorsi. Concetto comune tra gli udenti è che la comunicazione dei sordi sia diversa dall’italiano, considerandola una comunicazione povera, inferiore, poco adatta ad un’informazione colta; che non si tratti cioè di una lingua. Non è così. Quelli che usano i sordi non sono gesti e mimica, si tratta di segni, con una precisa grammatica, con regole per la declinazione dei verbi. Dunque si tratta effettivamente di una lingua. Un mimo può indicare una mela ma non può mimare la data di nascita o un altro carattere astratto; con la lingua dei segni si può.

Normalmente l’Uomo, per stabilire una comunicazione, fa uso della voce e, con essa, di una lingua, anche attraverso una forma scritta.

Al di là della voce e della scrittura, si è detto che la persona fa uso anche di altri segnali, come le immagini, le espressioni, i gesti ed i segni.

Quando una persona ha un deficit in qualcuno dei cinque sensi deve per forza di cose fare affidamento a quelli che ha. La lingua dei segni è preziosissima per i sordi, che naturalmente accrescono la loro capacità ottica, acquisendo anche una maggiore memoria visiva.

Tra i sistemi non verbali, l’espressione od il gesto da soli non sono sufficienti perché possono trasmettere solo termini concreti, come cose od animali, e non astratti, come numeri o verbi. Lo stesso dicasi, ovviamente, per la mimica che è l’unione delle due forme. Al linguaggio usiamo dare anche significati più ampi quando parliamo di “linguaggio degli animali”, o “dell’arte”, “delle piante”, “medico”, “burocratico” e così via.

Quando i gesti divengono simbolo, ecco che si parla di segni e, più propriamente di lingua dei segni. Tale lingua non può prescindere però dalle espressioni facciali, che ne fanno comunque parte integrante della grammatica.

La comunicazione verbale si esprime attraverso segnali che esprimono esternamente il pensiero, facendo perno sull’intelligenza del ricevente. Si distingue tra il “significato” ed il “significante”: il primo è il concetto in sé di quello che si vuole esprimere, mentre il secondo è la forma di espressione, come suoni o segni che servono ad esprimerlo.

Si effettua anche una “selezione” e “combinazione” delle parole da usare, sicché l’emittente (cioè chi esprime il concetto) manda al ricevente (colui al quale è destinato) un concetto (“referente”) attraverso un “messaggio” . Infine, altri due elementi sono indispensabili: il “codice”, cioè la forma in cui ci si esprime, come la lingua, ed il “canale”, cioè il modo, come la voce od il segno esistono codici anche non linguistici, come le espressioni o simboli convenzionali, spesso usati nei fumetti; significati diversi a seconda della disposizione delle penne sulla testa dei capi indiani ; i significati delle diverse posizioni delle bandierine per i marinai

Tutto quanto finora detto riguardo la comunicazione si ritrova anche nella lingua .ei segni usata dai sordi, anche con maggiori possibilità di comprensione. Infatti, a differenza degli udenti, le diverse comunità sorde del mondo hanno forme linguistiche diverse ma hanno in comune la grammatica ed altri parametri

Il termine “sordomuto” è relativamente recente

Non è vero che un sordo dalla nascita debba per forza essere muto: l’apparato vocale è indipendente da quello uditivo. In ogni caso ambedue possono leggere e scrivere e quindi comunicare con le altre persone normodotate e farsi una cultura.

A rendersi conto di ciò sembra essere stato per primo Rodolfo Agricola (1443-1485) che se ne meravigliò, ma la convinzione che i sordi fossero incapaci di ricevere un’istruzione non verrà messa in dubbio fino al XVII secolo. In Italia, invece, bisognerà aspettare il 1923 perché sia riconosciuto loro tale diritto.

Il primo ad affermare in modo esplicito che era possibile educare i sordi fu il medico italiano Girolamo Cardano (1501-1576) che sembra avesse anche elaborato un codice per l'insegnamento che purtroppo non sviluppò.

Fino alla fine del Settecento si trattava di un’educazione individuale, riservata ai figli di famiglie abbienti però, come i testi pubblicati stanno a dimostrare, il metodo di insegnamento consisteva in quello che si è poi definito “metodo orale”, che consisteva nel favorire l’uso della parola. Una

Una svolta venne con l’abate de l’Epée (1712-1789) che arrivò a fondare, nel 1760 a Parigi, la prima scuola per sordomuti. Proprio nella sua scuola, il de l’Epée si accorse che i suoi allievi usavano tra loro dei segni spontanei. Ne rimase colpito e cominciò a codificare tali segni. Ogni anno organizzava delle pubbliche prove del livello culturale cui i suoi allievi potevano arrivare.

Negli Stati Uniti d’America il metodo si radicò grazie a Thomas Hopkins Gallaudet , religioso del Connecticut, che venne in Europa alla scuola parigina e che, grazie all’aiuto di un sordo della stessa, divenuto educatore, Laurent Clerc , fondò nel 1817 ad Hartford la prima scuola americana per sordi e suo figlio Edward nel 1864 fonderà il Gallaudet College a Washington, destinato poi ad avere unita una università, ancora oggi unica al mondo del suo genere.

In Europa, si ebbero alcuni sviluppi grazie a studiosi quali Jean-Marc Itard, che può essere considerato il precursore di molte tecniche rieducative per bambini ritardati e la sua eredità sarà poi raccolta anche da Maria Montessori. Lui, che era stato un convinto sostenitore del metodo orale, negli ultimi anni della sua vita cambiò radicalmente parere, ritenendo che ogni rieducazione al linguaggio verbale doveva essere preceduta ed accompagnata dall’uso dei segni. Nella prima metà dell’Ottocento sono noti i nomi di alcune persone sorde, spesso insegnanti loro stessi, che scrivono su problemi ed argomenti relativi ai sordi.

L’Europa ebbe una battuta d’arresto nel 1880 a seguito di un Congresso internazionale tenutosi a Milano dove, contro il parere della parte favorevole alla lingua dei segni, di tutti i sordi presenti e di udenti stranieri come alcuni osservatori americani (Gallaudet e Penn), si arrivò alla conclusione di proibire in maniera assoluta negli istituti tale tecnica e di favorire esclusivamente il metodo orale.

Le conseguenze furono nefaste per le comunità sorde europee ed ancora oggi la mentalità in proposito continua ad elaborare metodi sempre più dannosi.

In America invece si progredì sempre più.

A partire dagli anni ’60 del Novecento, lo studioso William Stokoe decise di studiare questa forma di comunicazione con gli stessi strumenti linguistici degli studi sulle lingue esotiche. Egli ritrovò nella ASL (American Sign Language) una struttura per molti versi simile a quella delle lingue vocali, soddisfacendo a bisogni cognitivi, comunicativi ed espressivi di una comunità umana.

Lo Stokoe fu il primo formare un dizionario della lingua dei segni americana, dimostrando che anche tra i sordi c’è cultura e tradizioni in racconti e poesie, nonché un bagaglio di conoscenze da tramandare di generazione in generazione. Col suo lavoro rese i sordi consapevoli di possedere una vera e propria lingua.

Nel 1979 i ricercatori dell’Istituto di Psicologia del CNR hanno iniziato ad interessarsi al problema.

Nel 1995, a Trieste, si è tenuto il primo convegno nazionale della LIS, cui hanno partecipato sordi e udenti anche di altri paesi.

Fino a qualche anno fa la LIS non aveva nome.

L’istituto del CNR ha scelto invece “lingua dei segni” per almeno quattro motivi: innanzitutto si tratta di una vera e propria lingua e non di un semplice linguaggio; per avere un’equivalenza con le definizioni che si usano in altri paesi del mondo; perché i termini di “mimica” e “gestuale” può perpetuare l’equivoco di confonderla coi gesti usati dagli udenti; infine non ha fatto altro che recuperare la denominazione data dal Carbonieri nel 1858, prima dell’ostracismo del congresso del 1880.

Attualmente in Italia i sordi sono circa 70 mila, compresi tutti quelli che lo sono dalla nascita, quelli che lo sono diventati prima di imparare a parlare e quelli che invece lo sono da dopo. Una risoluzione del Parlamento europeo del 1988 ha invitato tutti i paesi al riconoscimento delle lingue

A causa della proibizione dell’uso di una lingua dei segni nazionale voluta nel congresso del 1880, sono nate spontaneamente lingue, o se vogliamo dialetti, nelle diverse comunità sorde, non solo regionali ma anche più di una all’interno della stessa città, a seconda dell’istituto di appartenenza.

L’esigenza moderna di una lingua nazionale dei sordi (L.I.S.) non esclude però che sopravvivano questi dialetti, naturalmente più ricchi

dei segni come lingue riconosciute tali, ma l’Italia, ancora oggi, non ha recepito l’indicazione comunitaria.

La LIS ha sue specifiche regole, sia lessicali che grammaticali che sfruttano potenzialità spaziali, ben diverse dall’italiano vocale

Le differenze derivano in parte dal diverso canale di comunicazione utilizzato: quello visivo-gestuale, diverso dunque da quello acustico-vocale. Benché si pensi sempre alla lingua dei segni come espressa unicamente con le mani, ad essa appartengono anche tutti quei movimenti non-manuali che le accompagnano, come quelli del corpo e dell’espressione, cioè degli occhi, del capo, delle spalle, della bocca. Ai segni si accompagnano le forme grammaticali specifiche.

Anche la Lis ha la sua fonetica. Essa è costituita da cinque parametri: la configurazione (cioè la postura delle mani), il luogo (lo spazio dove il segno si esprime), il movimento (assunto dalle mani), l’orientamento (la direzione assunta dalle mani), l’espressione (delle parti della testa e la postura del corpo).

Una forma di lingua dei segni è data dalla Dattilologia, che abbina un segno ad ogni lettera dell’alfabeto. Molto diffusa nella lingua dei segni americana, da noi è usata raramente, solo per parole difficili, nuove o straniere.









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