giovedì 27 gennaio 2011

giovedì 20 gennaio 2011

Tesina di Marta Di Stefano - Prima parte

I DIRITTI UMANI NELLA COMUNITA' EUROPEA : LA SFIDA DELL'IDENTITA' EUROPEA NELL' ERA DELLA MULTICULTURALITA'

IL PROBLEMA DELL' IDENTITA'

Il termine identità porta al suo interno una problematica: chi sono io? E' così che esordisce Alain de Benoist nel suo testo “Identità e Comunità”. La questione dell'identità è essenzialmente moderno e si districa nel campo culturale condiviso dalle tre scienze sociali: psicologia, sociologia e antropologia. Infatti, nelle società antiche il problema delle identità non esisteva nei termini riflessivi sulla persona come lo intendiamo oggi. E' solo verso il 1700 che “persona“ assume il significato tipico dei giorni nostri, cioè di un individuo che possiede una libertà individuale e che può essere preso in considerazione al di là della sua appartenenza. In sostanza quello dell'identità è un concetto puramente occidentale. Secondo l'autore è Toqueville che fa risalire al cristianesimo l'idea di identità, in quanto la morale non è più 'ciò che è bene essere', ma diviene 'ciò che è giusto fare', dotando così l'individuo di libertà di scelta. Difatti Sant'Agostino afferma che il cammino verso Dio non passa attraverso contatti esterni ma attraverso la nostra coscienza: “rientra in te stesso!”. L'individuo acquisisce così libero arbitrio. Come abbiamo accennato, quello dell'identità è un concetto moderno che si sviluppa a partire dal XVIII secolo con la nascita dell'individualismo, derivante dalla valorizzazione cristiana della dimensione interiore, nonché dalla teoria di Locke, che agli obblighi sociali antepone la libera volontà dell'individuo. Nasce così una metafisica della soggettività. A questo punto, il romanticismo ottocentesco erediterà l'idea dell'interiorità, ma si opporrà all'ideale meccanicistico del 700 illuminista, valorizzando i sentimenti al di sopra della produzione materiale e dando importanza all'immaginazione rispetto al concetto, ed è qui che nasce un nuovo problema riguardo l'identità: la realizzazione dell'io. Arriviamo quindi con Herder alla teoria espressivista tedesca, che sviluppa la ricerca della propria identicità e valorizza le differenze individuali, riuscendo così a trovare lo spazio realizzativo attraverso la differenziazione dall'altro. Questo concetto di originalità, però, oltre che per l'individuo vale anche per i popoli e per le comunità storiche; nasce così con Herder il Volksgeist, ovvero lo spirito popolare, padre sia del nazionalismo che dell'anticolonialismo moderno.

Siamo arrivati alla nascita della modernità, che si costituisce svalutando il passato per abbracciare una visione ottimistica del futuro (ideologia del progresso); da questo punto di vista le appartenenze limitano le libertà individuali e non costruiscono il proprio io.

Nell'appena nato Stato-Nazione la concezione comunitaria scompare, gli individui diventano uguali liberi e razionali, quindi liberi di fare le proprie scelte, come prevede il postulato universalista che inseguono tutte le ideologie liberali.

In questa nuova visione ideologica l'identità corrisponde all'individualità liberale borghese; l'affiliazione viene rimandata alla sfera privata, separando l'ordine biologico dall'ordine istituzionale.

La modernità rifiuta le relazioni naturali, i valori gerarchici, elimina le comunità e le caste, nonché la stratificazione attraverso la rivoluzione;estirpa i modi di vita tradizionalmente legati al mestiere, all'ambiente sociale e le credenze, e soprattutto omogeneizza i ruoli di genere femminile- maschile.

Tutto quindi con la modernità va verso la similitudine, l'indistinzione, l'uguaglianza, processo che ha il suo culmine nella globalizzazione, che ha omologato modelli e modi di vivere. Ma forse la più grande rivoluzione delle modernità è la nascita della terza via al genere indefinito, transessuale: insomma alla sessualità indistinta.

Ovviamente, con queste trasformazioni i primi ad essere sconvolti sono i ruoli nella famiglia, esiste solo una differenza: il potere d'acquisto.

Il lavoro è stata la prima risposta identitaria borghese e liberale contro una nobiltà improduttiva. La libertà personale si realizza attraverso l'avere un lavoro, un impiego.

E' così che la lotta di classe diviene sostituto dell'identità collettiva, dotandosi le classi di una cultura specifica. Anche la vita politica permette ai cittadini di acquisire identità; le identità politiche fanno nascere culture politiche. Lo stesso suffragio universale risponde ad una esigenza identitaria.

Ma le identità di classe sono settoriali, e accanto a loro sorgono le identità nazionali; anche il nazionalismo quindi è frutto della modernità. Questo non è solo un fenomeno politico, ma intrinseco di un immaginario dove coesistono storia, cultura, religione, leggende popolari etc. fattori che legittimano una narrazione. Se questi fattori o modelli crollano le stesse identità individuali rischiano di scomparire, tanto che i miti popolari sono sempre stati alla base di ogni collettività, in quanto tutte le società umane sono società culturali, come ci ricorda Durkheim parlando di coscienza collettiva.



Il primo a sottolineare l'importanza del concetto di 'riconoscimento' fu Hegel (nell'807), affermando che la coscienza di sé passa attraverso il riconoscimento dell'altro; è così che il riconoscimento realizza l'identità. La natura umana ha modalità molteplici, non è unitaria ma differenziata.

Nasce così secondo Baumann il problema del riconoscimento delle identità nell'ottica della crisi dello Stato-Nazione occidentale, in quanto lo Stato-Nazione non riesce più ad integrare i gruppi né a produrre il legame sociale. Le identità nazionali si disgregano, a beneficio di altre forme di identità, soprattutto nella sfera pubblica, dove la politica diventa il terreno in cui si svolge la contesa per il riconoscimento dell'identità.



Le identità individuali e quelle collettive sono indissolubilmente collegate; le identità si costruiscono attraverso l'interazione sociale, tanto da poter affermare che l'alterità è il necessario complemento dell'identità. Anche un'identità etnica non è solo endogena, ma si costruisce tramite le categorizzazioni che fanno gli altri e l'identificazione con il proprio gruppo d'appartenenza.

Ognuno di noi ha svariate appartenenze: linguistiche, culturali, nazionali, politiche, professionali, sessuali, etc., perché come si riferiva Max Weber parlando di “politeismo di valori“, l'identità è in continuo mutamento in quanto la sua caratteristica è la sua multidimensionalità.


I DIRITTI SOCIALI NELL'UNIONE EUROPEA

Premessa: i diritti e le libertà nei Trattati europei

I Trattati europei non garantiscono espressamente diritti a carattere sociale, ma garantiscono le quattro libertà fondamentali connesse al mercato comune tra i Paesi membri e la cui tutela rappresenta una tra le principali ragioni fondanti delle Comunità e quindi dell'Unione Europea.

Le quattro libertà fondamentali sono le seguenti:

1) la libertà di circolazione dei lavoratori subordinati

2) la libertà di stabilimento

3) la libertà di prestazioni di servizi

4) la libertà di circolazione delle merci.


Il principio di eguaglianza e i diritti sociali nell'ordinamento comunitario
E' anche vero che i Trattati europei garantiscono, seppure indirettamente o implicitamente, il principio di eguaglianza, ed è pacifico che vi è un forte legame tra i diritti sociali e i principi d'eguaglianza.

Nei Trattati attualmente vigenti il principio di eguaglianza si può trarre da una serie di principi. In primo luogo nell'ordinamento europeo, si pone il principio di non discriminazione rispetto alla nazionalità degli individui. In secondo luogo, nei Trattati viene stabilito il principio della parità di retribuzione tra le donne e gli uomini. In terzo luogo, il principio stesso viene esplicitato da tutta la normativa sulla concorrenza prevista nella disciplina dei trattati, ovvero il principio di parità di trattamento tra le imprese.

D'altronde, nel preambolo del Trattato sull'Unione Europea (TUE) si parla non solo dell'obiettivo generale del “progresso sociale”, ma si fa anche espresso riferimento ai diritti sociali fondamentali; si fa pure cenno al fatto che i diritti sociali, indicati nella Carta sociale Europea di Torino del 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, costituiscono patrimonio dell'Unione e l'intenzione di esserne vincolata.

E' vero che la Comunità e poi l'Unione Europea nascono essenzialmente per garantire le libertà economiche sopra elencate, ma è anche vero che poi gli ordinamenti comunitari ed europei si sono spostati anche sul versante dei diritti sociali.


Considerazioni conclusive

Esistono alcune competenze della Comunità Europea espressamente rivolte ad obiettivi di rilievo sociale; si possono ricordare, tra l'altro, le competenze in materia di “occupazione”, di “politica sociale”, e ancora di istruzione, di sanità pubblica, di protezione dei consumatori, e di “coesione economica e sociale”.

Certo, è chiaro che sulla base delle limitate competenze previste dai trattati vigenti nelle materie attinenti ai diritti sociali, gran parte delle attività di rilievo sociale volte alla riduzione degli squilibri tra le diverse condizioni individuali, è lasciata all'azione degli Stati. Questo trova ulteriore conferma nel fatto che l'Unione e le Comunità Europee sono state costituite sin dall'inizio come ordinamenti privi di proprie strutture amministrative distribuite sul territorio europeo (si parla, infatti, per lo più di amministrazione europea “indiretta”, cioè esercitata attraverso le strutture amministrative degli Stati membri). Nonostante gli ordinamenti europei non dispongano delle risorse finanziarie che sarebbero necessarie e sufficienti per attuare le numerose politiche sociali connesse a tutti quei diritti che sono proprie dello stato sociale contemporaneo, i diritti sociali a livello europeo rappresentano uno strumento di ulteriore rafforzamento del processo di coesione e di integrazione tra gli Stati.

DIRITTI INDIVIDUALI E MULTICULTURA

L' Europa monoculturale si è gradualmente evoluta in Europa multiculturale in cui coesistono, oltrel e culture nazionali degli Stati europei, anche le diverse culture delle comunità immigrate.

In questa nuova Europa le nazioni devono affrontare la compresenza di visioni differenziate e dell'interazione di culture e caratteristiche peculiari di ciascuna identità.

La questione diventa saliente quando sono in discussione i diritti fondamentali degli immigrati e della loro condizione giuridica: spesso i valori e le tradizioni dei diversi gruppi etnici sono infatti in conflitto con quelli del nostro ordinamento europeo.

Infatti il problema che si pone non è solo quello del rispetto delle culture diverse ma, in particolare, quello dell' incompatibilità tra culture quando si ripercuote sui valori e principi degli ordinamenti giuridici nazionali.

Si pensi, ad esempio, alla discriminazione tra i sessi e agli usi da noi considerati lesivi della dignità della persona (come la pratica dell'infibulazione) .

Il rispetto della diversità culturale non può,infatti, esimersi dal tutelare la dignità umana e i diritti fondamentali universali così come stati sanciti dalle diverse convenzioni internazionali sui diritti della persona.

Gli interventi in materia legislativa europea volti a marginare determinati fenomeni lesivi dei diritti di parità di genere sono stati negli anni diversi, ma vale la pena ricordare la legge comunitaria n.39 del 1 marzo 2002,in cui si evidenzia tra i principi e i criteri direttivi la raccomandazione affinchè si tenga conto del diverso impatto che le forme di razzismo possono avere sulle donne in senso culturale e religioso. Si esplicita qui il concetto “doppia discriminazione”, e quindi non solo in base alla razza o al'etnia diversa, ma anche al sesso.

I DIRITTI UMANI E LE CORTI EUROPEE

Definizione generale

Dopo l'ultima guerra mondiale sono stati approvati numerosi atti di diritto internazionale che hanno provveduto a riconoscere i diritti umani.

Sono detti diritti “umani” perché spettano ad ogni persona umana e perché sono rivolti a tutelare i tratti essenziali di ogni persona, ossia la dignità, la libertà e l'eguaglianza tra gli individui stesi. Sono detti anche “assoluti”, perché ciascuno ne dispone nei confronti di qualsiasi autorità o potere e sono, inoltre, considerati diritti irrinunciabili e imprescrittibili; sono poi considerati diritti “inviolabili” perché sono insopprimibili, per lo meno nel loro nucleo essenziale.

La Dichiarazione universale dei diritti umani

Tra gli atti che a livello internazionale hanno riconosciuto e previsto i diritti umani, va ricordata in primo luogo la “Dichiarazione universale dei diritti umani” approvata dall'Assemblea Generale dell'ONU il 10 Gennaio del 1948.

I principi posti a fondamento della Dichiarazione sono indicati nell'art. 1, ove si attesta che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.

Nell'art. 2 della dichiarazione del 1948 si afferma, poi, che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna”.

Ovviamente va sottolineato che a fianco ai diritti vi sono anche taluni spunti attinenti ai doveri ed alle limitazioni che gravano contemporaneamente sui singoli individui, ponendo in stretto collegamento i diritti ed i doveri.

Si noti che, oltre al principio dell'esercizio dei diritti e delle libertà limitabile per consentire il contemporaneo esercizio dei diritti e delle libertà da parte degli altri individui, si stabilisce il principio della necessaria riserva di legge e della tutela di importanti interessi dell'intera comunità.

Le limitazioni dei diritti, quindi, sono ammissibili se sono rivolte a soddisfare degli interessi generali che sono democraticamente rappresentati, democraticamente individuati e democraticamente formulati.


I successivi atti internazionali ed Europei in materia di diritti umani

Tra i principali atti internazionali che in materia di diritti umani sono stati approvati successivamente alla predetta Dichiarazione, occorre ricordare almeno la Convenzione contro il genocidio del Dicembre 1948, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del Novembre 1959, e le due Convenzioni sempre proclamate dall'Assemblea dell'ONU, una per la protezione dei diritti sociali, economici e culturali e l'altra per i diritti civili e politici.

A livello europeo esistono una serie di Convenzioni in materia di diritti umani inviolabili. La prima e fondamentale è quella approvata a Roma il 4 Novembre 1950; si tratta della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Sulla base di tale convenzione è stata istituita la Corte Europea dei diritti dell'Uomo.


Il valore dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale

I diritti previsti nei trattati internazionali rappresentano l'oggetto di obblighi che gli Stati assumono nei confronti degli altri Stati, ma non costituiscono di per sé degli obblighi verso i cittadini. Dal punto di vista interno invece, il rispetto effettivo degli obblighi assunti dallo Stato mediante in trattato stesso, dipende normalmente dalla normativa presente all'interno di ciascuno Stato.

Di fatto, però, manca un potere internazionale centralizzato cui è attribuita l'autorità e la legittimazione d'intervenire all'interno della sfera che è rimessa all'esclusiva sovranità dei singoli Stati.





Le Corti Europee

Esiste però il problema della tutela di diritti umani “oltre lo Stato” che consiste essenzialmente nel consentire che autorità terze possano garantirli rispetto agli atti lesivi posti in essere dagli stessi poteri statuali ma, se lo Stato non riconosce l'autorità dei Tribunali internazionali, è ben difficile sostenere che questi diritti possano essere effettivamente garantiti.

L' Unione Europea agisce in base al cosiddetto principio di sussidiarietà, ovvero quando interviene in qualità di organismo più importante in caso di carenza di quello a più diretto contatto con la comunità, come lo Stao nazionale.

In Europa tale problema è affrontato e in parte risolto mediante le istituzioni giurisdizionali europee che sono competenti ad assicurare il rispetto dei diritti umani o comunque inviolabili che sono stati previsti da un lato dalla CEDU, dall'altro lato dagli altri Trattati delle comunità e dell'Unione Europea. Il rispetto della CEDU è assicurato dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo che ha sede a Strasburgo, mentre il rispetto dei Trattati europei è compito della Corte di Giustizia della Comunità europea che ha sede a Lussemburgo.

La Corte di Strasburgo è attivata da un ricorso diretto alla Corte medesima con il quale si chiede la condanna dello Stato che ha violato i diritti fondamentali previsti nella CEDU. Il ricorso può avvenire per conto di uno Stato, ma può essere anche individuale; in sostanza qualunque soggetto che si ritenga leso in un diritto garantito dalla CEDU può presentare ricorso anche quando la violazione provenga dal proprio Stato, ma a condizione che abbia esaurito i ricorsi a sua disposizione a livello nazionale. Se viene accertato che lo Stato ha commesso un atto lesivo, la Corte condanna lo Stato e lo obbliga a conformarsi e a porre in essere tutto ciò che è necessario per ristabilire il diritto. La Corte può, inoltre, disporre anche un risarcimento nei confronti del soggetto leso.















ISTITUZIONI E ORGANI DELL'UNIONE EUROPEA


L’Unione europea (UE) non è una federazione come gli Stati Uniti, né un semplice organismo per la cooperazione tra i governi, come le Nazioni Unite. È, infatti, un organismo unico nel suo genere. I paesi che costituiscono l’UE (gli “Stati membri”) uniscono le loro sovranità per guadagnare una forza e un’influenza mondiale che nessuno di essi potrebbe acquisire da solo.

Nella pratica, mettere insieme le sovranità significa che gli Stati membri delegano alcuni dei loro poteri decisionali alle istituzioni comuni da loro stessi create in modo che le decisioni su questioni specifiche di interesse comune possano essere prese democraticamente a livello europeo.

Il processo decisionale dell’UE, in generale, e la procedura di codecisione, in particolare, implicano la partecipazione di tre istituzioni principali:

il Parlamento europeo (PE), che rappresenta i cittadini ed è eletto direttamente da questi;

il Consiglio dell’Unione europea, che rappresenta i singoli Stati membri;

la Commissione europea, che ha il compito di difendere gli interessi generali dell’Unione.

Da questo “triangolo istituzionale” hanno origine le politiche e le leggi applicate in tutta l’UE. Di norma, è la Commissione a proporre nuove leggi mentre spetta al Parlamento e al Consiglio adottarle. La Commissione e gli Stati membri applicano poi le leggi, e la Commissione le fa rispettare.

Di vitale importanza è il ruolo svolto da altre due istituzioni: la Corte di giustizia che vigila sullo stato di diritto comunitario e la Corte dei conti che ha una funzione di controllo sul finanziamento delle attività dell’Unione.

I poteri e le responsabilità di queste istituzioni sono sanciti dai trattati, che sono la base di tutte le attività dell’UE. I trattati stabiliscono anche le regole e le procedure le regole e le procedure che le istituzioni dell’UE sono tenute a seguire. I trattati sono approvati dai presidenti e/o dai primi ministri di tutti i paesi dell’UE e ratificati dai loro parlamenti.

Oltre a tali istituzioni, l’UE possiede una serie di altri organismi che svolgono funzioni specializzate:

il Comitato economico e sociale europeo rappresenta la società civile, i datori di lavoro e i lavoratori;

il Comitato delle regioni rappresenta gli enti regionali e locali;

la Banca europea per gli investimenti finanzia i progetti d’investimento dell’UE e sostiene le piccole e medie imprese attraverso il Fondo europeo per gli investimenti;

la Banca centrale europea è responsabile della politica monetaria europea;

il Mediatore europeo: prende in esame i reclami inerenti a cattiva amministrazione da parte delle istituzioni e degli organi dell’UE;

il Garante europeo per la protezione dei dati ha funzioni di salvaguardia della riservatezza dei dati personali dei cittadini;

l’Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee pubblica informazioni in merito all’UE;

l’Ufficio di selezione del personale delle Comunità europee assume personale destinato alle istituzioni e ad altri organismi dell’UE.

la Scuola europea di amministrazione ha il compito di offrire al personale dell’UE una formazione in settori specifici.

Sono state inoltre istituite agenzie specializzate con la funzione di svolgere determinati compiti a carattere tecnico, scientifico o direzionale.


Istituzioni europee

In seguito alla firma del Trattato di Lisbona, il glossario è corso di aggiornamento.

Le istituzioni europee, create dal trattato di Roma, sono i fautori politici della costruzione europea, .

L'articolo 7 del trattato che istituisce la Comunità europea menziona cinque istituzioni europee stricto sensu:

 il Parlamento europeo;


 il Consiglio dell'Unione europea ;


 la Commissione europea;


 la Corte di giustizia;


 la Corte dei conti.


In virtù dell'articolo 3 del trattato sull'Unione europea le istituzioni esercitano i loro compiti in un quadro istituzionale unico. Ciò significa che esse sono protagoniste nel processo decisionale dei tre pilastri.

Esse interagiscono con altri attori come il Comitato economico e sociale europeo, il Comitato delle regioni, la Banca centrale europea, la Banca europea per gli investimenti, il Mediatore europeo e le agenzie comunitarie, costituendo così il sistema istituzionale europeo.



Consiglio dell'Unione europea

Il Consiglio dell'Unione europea (« Consiglio dei ministri » o « Consiglio ») è l'istanza decisionale preminente dell'Unione europea. Esso riunisce i ministri degli Stati membri e costituisce quindi l'istituzione di rappresentanza degli Stati membri. La sede del Consiglio è a Bruxelles, ma le riunioni possono aver luogo a Lussemburgo. Le sessioni del Consiglio sono convocate dalla Presidenza che ne fissa l'ordine del giorno.

Il Consiglio si riunisce in varie formazioni (in totale 9) nel cui ambito si incontrano i ministri competenti degli Stati membri per i settori interessati: Affari generali e relazioni estere, Affari economici e finanziari, Occupazione, Politica sociale, sanità e consumatori, Competitività, Cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (GAI), Trasporti, Telecomunicazioni ed energia, Agricoltura e pesca, Ambiente, Istruzione, gioventù e cultura.

Ciascun paese dell'Unione europea esercita la presidenza del Consiglio, secondo un sistema di rotazione, per un periodo di sei mesi. Dal gennaio 2007, vige un nuovo sistema di esercizio delle presidenze del Consiglio. Per ogni periodo di 18 mesi, le tre presidenze in esercizio elaborano un progetto di programma comune.

Le decisioni del Consiglio sono preparate dal Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper), che è assistito da gruppi di lavoro composti da funzionari delle amministrazioni nazionali.

Il Consiglio esercita, con il Parlamento europeo, le funzioni legislative e di bilancio ed è l'istituzione principale con poteri decisionali in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC), oltre che di cooperazione delle politiche economiche (approccio intergovernativo). Esso detiene anche il potere esecutivo che delega generalmente alla Commissione.

Nella maggioranza dei casi, il Consiglio decide su proposta della Commissione europea, in codecisione con il Parlamento europeo. In funzione dei settori da esaminare, esso delibera a maggioranza semplice, a maggioranza qualificata o all'unanimità, anche se la maggioranza qualificata è più ampiamente utilizzata (agricoltura, mercato unico, ambiente, trasporti, occupazione, sanità, ecc.).

- Commissione europea Istituzione collegiale politicamente indipendente, la Commissione europea incarna e difende l'interesse generale dell'Unione europea. Grazie al diritto di iniziativa quasi esclusivo sugli atti legislativi, la Commissione è considerata il motore dell'integrazione europea. Nel quadro delle politiche comunitarie, essa predispone ma anche attua gli atti legislativi adottati dal Consiglio e dal Parlamento europeo.

La Commissione ha inoltre poteri di esecuzione, di gestione e di controllo. Essa assicura in effetti la programmazione e l'attuazione delle politiche comuni, esegue il bilancio e gestisce i programmi comunitari. In qualità di "custode dei trattati" essa vigila anche affinché sia applicata la legislazione europea.

La Commissione è nominata a maggioranza qualificata per 5 anni dal Consiglio in accordo con gli Stati membri, ed è soggetta al voto di investitura del Parlamento europeo, dinanzi al quale è responsabile. Il collegio dei commissari è assistito da un'amministrazione composta da direzioni generali e da servizi specializzati, il cui personale è ripartito principalmente tra Bruxelles e Lussemburgo.

- Corte di giustizia delle Comunità europee (CGCE) La Corte di giustizia assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati costitutivi. E' composta da un numero di giudici pari al numero degli Stati membri (articolo 221) e consta attualmente di ventisette giudici che vengono rinnovati parzialmente ogni tre anni. Sono presieduti da un Presidente, designati dai suoi pari per un mandato di tre anni, rinnovabile. I giudici sono assistiti da otto avvocati generali, nominati per sei anni dagli Stati membri di comune accordo.

La Corte può riunirsi in sezioni (da tre a cinque giudici), in grande sezione (tredici giudici) o in seduta plenaria.

La CGCE è stata creata nel 1952 dal trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e assolve due funzioni principali:

 verificare la compatibilità degli atti delle istituzioni europee e dei governi con i trattati; (ricorso per inadempimento, ricorso per carenza e ricorso per annullamento);

 pronunciarsi, su richiesta di un giudice nazionale, sull'interpretazione o la validità delle disposizioni del diritto comunitario (rinvio pregiudiziale).

Data la congestione della corte e la durata sempre più lunga dei ricorsi, nel 1989 è stato istituito un tribunale di primo grado delle Comunità europee (TPGCE), che introduce un doppio grado di giurisdizione e consente di alleggerire il lavoro della CGCE. Nello stesso ordine di idee, dopo il trattato di Nizza è possibile creare camere specializzate secondo l'esempio del tribunale della funzione pubblica europea, operativa dal febbraio 2005.

Sempre in uno spirito di semplificazione e di razionalizzazione del funzionamento della Corte, il suo statuto può d'ora innanzi essere modificato dal Consiglio che delibera all'unanimità su richiesta della Corte o della Commissione. Al tempo stesso, l'approvazione del regolamento di procedura della Corte da parte del Consiglio, si effettua ormai a maggioranza qualificata.

- Corte dei conti europea La Corte dei conti europea, che ha sede a Lussemburgo, è composta da un cittadino di ciascuno Stato membro. I suoi membri sono nominati per sei anni (rinnovabili) con decisione del Consiglio dell'Unione europea adottata a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo. La Corte dei conti esercita la sua attività in completa indipendenza.

La Corte controlla la legalità e la regolarità delle entrate e delle spese dell'Unione europea (e di ogni organismo creato dalla Comunità) e ne accerta la sana gestione finanziaria. Essa fornisce al Parlamento europeo e al Consiglio una dichiarazione di affidabilità relativa ai conti oltre di legalità e regolarità delle operazioni relative. Essa redige una relazione annuale, pubblicata nella Gazzetta ufficiale alla fine di ogni esercizio finanziario.

In base al trattato di Amsterdam, la Corte dei conti è chiamata a riferire al Parlamento europeo e al Consiglio in merito ad ogni caso di irregolarità. Inoltre, il suo potere di controllo è stato esteso anche ai fondi comunitari gestiti dagli organismi esterni e dalla Banca europea per gli investimenti. Tuttavia, essa non dispone di un potere di sanzione.

Dal trattato di Nizza essa può istituire, nel suo ambito, sezioni per l'adozione di talune categorie di relazioni o di pareri.

Il trattato sull'Unione europea del 1992 ha conferito alla Corte, istituita nel 1975 ed entrata in funzione nel 1977, il rango di istituzione di pieno diritto. Essa è fondata sugli articoli da 246 a 248 del trattato delle Comunità europee.

- Parlamento europeo Il Parlamento europeo riunisce i rappresentanti dei 492 milioni di cittadini dell'Unione europea. Essi sono eletti a suffragio universale diretto dal 1979. Il Parlamento europeo conta 785 deputati, suddivisi in funzione della dimensione della popolazione degli Stati membri.

Le funzioni principali del Parlamento europeo sono le seguenti:


• potere legislativo: il Parlamento condivide perlopiù il potere legislativo con il Consiglio dei ministri, in particolare mediante la procedura di codecisione;

• potere finanziario: il Parlamento condivide il potere finanziario con il Consiglio, votando il bilancio annuale, rendendolo esecutivo mediante la firma del presidente del Parlamento, e controllando la sua esecuzione;

• controllo politico delle istituzioni europee, in particolare della Commissione: il Parlamento può approvare od opporsi alla designazione dei membri della Commissione ed è abilitato a rovesciare la Commissione nel suo insieme, con una mozione di censura. Con le interrogazioni scritte o orali, dirette alla Commissione e al Consiglio, esso esercita inoltre un potere di controllo sulle attività dell'Unione. Il Parlamento ha anche la possibilità di costituire commissioni temporanee e di inchiesta, i cui poteri non si limitano all'attività delle istituzioni comunitarie, ma possono anche riguardare l'azione degli Stati membri nell'attuazione delle politiche comunitarie.

Con il trattato di Amsterdam (entrato in vigore nel 1999), i poteri del Parlamento europeo si sono rafforzati, in particolare grazie al fatto che la procedura di codecisione è stata notevolmente estesa. Questa evoluzione verso un potenziamento del ruolo di colegislatore del Parlamento si è rafforzata con il trattato di Nizza (entrato in vigore nel 2003), che gli ha attribuito un diritto di ricorso davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee.

- Commissioni parlamentari Analogamente a quanto successo per i parlamenti nazionali, diverse commissioni sono state poste in essere dal Parlamento europeo al fine di predisporre i lavori in seduta plenaria. I lavori legislativi più importanti del Parlamento sono svolti proprio nell'ambito delle commissioni parlamentari. All'inizio e poi a metà legislatura, i deputati europei, membri di ciascuna commissione, sono eletti in funzione della loro appartenenza politica ed esperienza.

Numero e attribuzioni delle commissioni parlamentari sono fissati dai parlamentari stessi, conformemente al regolamento interno del Parlamento europeo. Quanto alla sesta legislatura (2004-2009), si è deciso di portare a 20 il numero di commissioni permanenti specializzate, contro le 17 precedenti. Esse sono suddivise per settore (mercato interno, agricoltura, occupazione, industria, cultura, affari costituzionali e giuridici, ecc.).

Ove lo ritenga necessario, il Parlamento può inoltre istituire sottocommissioni, commissioni temporanee, ovvero commissioni d'inchiesta. Finora sono state costituite due commissioni di inchiesta, di cui una nel 1996 sul regime del transito comunitario e l'altra nel 1997 sull'epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (ESB). Nel 2003 è stata costituita inoltre una commissione temporanea sul rafforzamento della sicurezza marittima.

Il principale compito delle commissioni permanenti è di dibattere in merito alle proposte di nuove disposizioni legislative trasmesse dalla Commissione europea e di predisporre rapporti di iniziativa. Per ogni proposta legislativa o di iniziativa è designato un relatore sulla base di un accordo tra i gruppi politici che compongono il Parlamento. La sua relazione è discussa, emendata e votata in seno alla commissione parlamentare e, successivamente, è trasmessa all'assemblea plenaria, che si riunisce una volta al mese a Strasburgo per dibattere e votare sulla base della relazione.

Ai fini del voto d'investitura della Commissione europea, che spetta al Parlamento, le commissioni parlamentari sono anche il luogo in cui si svolge la preventiva audizione dei Commissari designati sul proprio settore di competenza.

- Mediatore europeo La funzione del mediatore europeo è stata istituita con il trattato sull'Unione europea (Maastricht, 1992) per vegliare sull'amministrazione e la trasparenza amministrativa a livello delle istituzioni europee.

Il mediatore europeo è nominato dal Parlamento europeo, dopo ogni elezione di quest'ultimo per la durata della legislatura (cinque anni). È abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell'Unione europea o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o che abbia la sede sociale in uno Stato membro, denunce che devono riguardare casi di cattiva amministrazione nell'operato delle istituzioni o degli organi comunitari (salvo la Corte di giustizia ed il Tribunale di primo grado). Ad esempio può trattarsi dell'assenza o del rifiuto di accesso alle informazioni, di un ritardo amministrativo ingiustificato, di un trattamento iniquo o discriminatorio o di una mancanza di trasparenza.

Il mediatore può aprire un'indagine di sua iniziativa o in seguito ad una denuncia. Le denunce possono essere trasmesse direttamente al mediatore o tramite un deputato europeo.

Qualora il mediatore constati un caso di cattiva amministrazione egli ne investe l'istituzione interessata, procede alle indagini, ricerca una soluzione che possa rimuovere il problema e propone eventualmente raccomandazioni a cui l'istituzione è tenuta a rispondere entro tre mesi con un parere circonstanziato. Se l'istituzione interessata non accetta di tenere conto delle raccomandazioni proposte, non può in alcun caso imporre una soluzione. Tuttavia potrà trasmettere una relazione speciale sulla questione al Parlamento europeo affinché quest'ultimo prenda le misure necessarie.

Il mediatore presenta al Parlamento europeo una relazione annuale sulle indagini svolte.

- Parlamenti nazionali Fin dal 1989 alcuni deputati delle commissioni competenti dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo si riuniscono semestralmente in seno alla Conferenza degli organi specializzati negli affari comunitari (COSAC).

In seguito all'entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993), le competenze dell'Unione europea sono state estese a settori che storicamente rientrano nella sfera di competenza nazionale, come la giustizia e gli affari interni. Per questo motivo l'importanza degli scambi tra i parlamenti nazionali e il Parlamento europeo è stata sottolineata in una dichiarazione sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'ambito dell'Unione europea. A titolo di questa dichiarazione allegata al trattato di Maastricht, i governi nazionali sono invitati a trasmettere tempestivamente al loro parlamento rispettivo le proposte legislative della Commissione per loro informazione o per prenderle eventualmente in esame. Questa dichiarazione raccomanda anche di intensificare gli scambi di informazioni tra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali per facilitare l'implicazione di questi ultimi nel processo comunitario e di consentire loro di effettuare un miglior controllo democratico.

Un protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali è stato allegato al trattato sull'Unione europea dal trattato di Amsterdam. Esso precisa che tutti i documenti di consultazione della Commissione (Libri bianchi, Libri verdi e comunicazioni) devono essere imperativamente trasmessi ai parlamentari nazionali. Deve essere rispettato un termine di sei settimane tra la data in cui una proposta legislativa è messa a disposizione dalla Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo e la data in cui essa è iscritta all'ordine del giorno del Consiglio: l'obiettivo è di consentire ai parlamentari nazionali di discuterla, ove lo ritengano necessario.

Inoltre, la COSAC, può oramai apportare qualsiasi contributo ritenuto appropriato alle istituzioni dell'Unione ed esaminare qualsiasi atto legislativo proposto in relazione ad uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia (che potrebbe avere un'incidenza diretta sui diritti e le libertà dei cittadini).

- Procedura del parere conforme

La procedura del parere conforme (articolo 192 del trattato che istituisce la Comunità europea) è stata introdotta dall'Atto unico europeo (1986) e comporta che il Consiglio debba ottenere il consenso del Parlamento europeo ai fini dell'adozione di alcune decisioni che rivestono particolare importanza. Il principio del parere conforme si basa su una lettura unica. Il Parlamento può accettare o respingere una proposta ma non può modificarla. In mancanza del parere conforme, l'atto non può essere adottato.

Il parere conforme si applica principalmente all'adesione di nuovi Stati membri (articolo 49 TCE), agli accordi di associazione e ad altri importanti accordi con paesi terzi.



È previsto anche per la cittadinanza, i compiti specifici affidati alla Banca centrale europea (BCE), le modifiche allo statuto del Sistema europeo di banche centrali della BCE, i fondi strutturali e di coesione, oltre alla procedura elettorale uniforme per l'elezione del Parlamento europeo (articolo 190 TCE).

Inoltre il parere conforme del Parlamento europeo è richiesto anche in relazione alle sanzioni applicabili in caso di violazione grave e persistente dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro (articolo 7 del TUE) oltre che per una cooperazione rafforzata nel settore cui si applichi la procedura di codecisione.

Il parere conforme del Parlamento europeo è espresso con la maggioranza dei suffragi. Tuttavia la maggioranza dei membri è richiesta in due ipotesi, cioè l'adesione di uno Stato membro e la procedura elettorale.

- Procedura del parere semplice (procedura di consultazione) La procedura del parere semplice (articolo 192 del trattato CE) consente al Parlamento europeo di esprimere un parere su una proposta della Commissione. Nei casi previsti dal trattato, il Consiglio consulta il Parlamento prima di decidere in merito alla proposta della Commissione ed è tenuto a prendere in debita considerazione il punto di vista del Parlamento. Il Consiglio non è tuttavia vincolato dalla posizione del Parlamento, che è soltanto tenuto a consultare. Il Parlamento deve essere nuovamente consultato nell'ipotesi in cui il Consiglio intenda apportare modifiche sostanziali alla proposta iniziale. Il potere del Parlamento in relazione a questa procedura è abbastanza limitato, giacché può solo sperare che la Commissione prenda in considerazione i suoi emendamenti in una proposta modificata.

Al di fuori dei casi previsti dai trattati, il Consiglio si è impegnato a consultare il Parlamento anche in merito alla maggior parte delle questioni importanti: si tratta di una consultazione facoltativa. La procedura del parere semplice è utilizzata anche per atti di natura non vincolante, ovvero le raccomandazioni e i pareri del Consiglio e della Commissione.

- Procedura di codecisione La procedura di codecisione (articolo 251 del trattato CE), introdotta dal trattato di Maastricht, conferisce al Parlamento europeo il potere di adottare una serie di atti congiuntamente con il Consiglio dell'Unione europea. Prevede una, due o tre letture e si traduce in un maggior numero di contatti tra i due colegislatori, ovvero il Parlamento e il Consiglio, moltiplicando anche i contatti con la Commissione europea. In pratica la procedura di codecisione ha rafforzato il potere legislativo del Parlamento europeo nei seguenti settori: libera circolazione dei lavoratori, diritto di stabilimento, servizi, mercato interno, istruzione (azione di incentivazione), sanità (azioni di incentivazione), consumatori, reti transeuropee (orientamenti), ambiente (programmi generali d'azione), cultura (azione di incentivazione) e ricerca (programma quadro).

Il trattato di Amsterdam ha semplificato la procedura di codecisione al fine di renderla più efficace e più rapida e rafforzare il ruolo del Parlamento. La procedura è stata inoltre estesa a nuovi settori, come l'esclusione sociale, la sanità pubblica e la lotta contro le frodi lesive degli interessi finanziari della Comunità europea.

Il Parlamento deve partecipare all'esercizio del potere legislativo per rafforzare il carattere democratico dell'azione comunitaria. È per questo motivo che per ogni strumento normativo adottato a maggioranza qualificata è ipotizzabile il ricorso alla procedura di codecisione. Così, nella maggior parte dei casi alla procedura di codecisione in sede di Parlamento si accompagna il voto a maggioranza qualificata nell'ambito del Consiglio. Tuttavia in relazione ad alcune disposizioni del trattato la procedura di codecisione e l'unanimità continuano a coesistere.

Il trattato di Nizza ha portato ad un parziale superamento di questa situazione. La Conferenza intergovernativa, apertasi nel mese di febbraio 2000, si è pronunciata infatti a favore di un ampliamento del campo di applicazione della procedura di codecisione, nonché a favore di un parallelo e contemporaneo ampliamento del ricorso alla maggioranza qualificata in sede di Consiglio. Sono sette le disposizioni del trattato per le quali la CIG ha previsto l'introduzione del voto a maggioranza qualificata e la contestuale introduzione della procedura di codecisione: si tratta delle misure di incentivazione volte a combattere le discriminazioni, della cooperazione giudiziaria in materia civile, delle misure specifiche destinate a svolgere un ruolo di sostegno nel settore industriale, delle azioni in materia di coesione economica e sociale (al di fuori dei fondi strutturali), dello statuto dei partiti politici a livello europeo ed infine delle misure in materia di visti, asilo e immigrazione.

- Procedura di cooperazione La procedura di cooperazione (articolo 252 del trattato CE) è stata istituita dall'Atto unico europeo (1986); ha fornito al Parlamento europeo la possibilità di influire maggiormente sul processo legislativo mediante la "doppia lettura". Inizialmente il trattato di Maastricht ha ampliato notevolmente il campo di applicazione di questa procedura; successivamente il trattato di Amsterdam ha segnato un'inversione di tendenza, favorendo la procedura di codecisione (articolo 251 del trattato CE). Pertanto la procedura di cooperazione si applica oggi soltanto in relazione all'Unione economica e monetaria.

L'avvio della procedura di cooperazione presuppone sempre una proposta della Commissione trasmessa al Consiglio e al Parlamento europeo. Nel corso della prima lettura il Parlamento esprime un parere sulla proposta della Commissione. Il Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, adotta poi una posizione comune, che viene comunicata al Parlamento, assieme alle informazioni e alle motivazioni che hanno indotto il Consiglio ad adottare tale posizione comune.

In fase di seconda lettura il Parlamento esamina la posizione comune ed entro un termine di tre mesi può approvare la posizione comune, proporre emendamenti o respingere la posizione comune. In queste ultime due ipotesi è previsto il voto a maggioranza assoluta dei membri che compongono il Parlamento. Qualora il Parlamento respinga la posizione comune, il Consiglio può deliberare in seconda lettura soltanto all'unanimità.

A questo punto la Commissione riesamina, entro il termine di un mese, la proposta in base alla quale il Consiglio ha adottato la propria posizione comune e trasmette al Consiglio la propria proposta, che può recepire o escludere gli emendamenti proposti dal Parlamento.

Entro il termine di tre mesi, il Consiglio può adottare la proposta riesaminata dalla Commissione deliberando a maggioranza qualificata, oppure modificare all'unanimità la proposta riesaminata oppure adottare gli emendamenti parlamentari che la Commissione non ha recepito, deliberando anche in questo caso all'unanimità.

Nella procedura di cooperazione il Consiglio può sempre esercitare un diritto di veto rifiutando di pronunciarsi sugli emendamenti proposti dal Parlamento europeo o sulla proposta modificata della Commissione, e bloccare quindi l'iter legislativo.

- Procedura elettorale uniforme

Il trattato che istituisce la Comunità europea prevede che il Parlamento europeo elabori progetti volti a permettere l'elezione dei suoi membri al suffragio universale diretto, sulla base di una procedura uniforme in ciascuno Stato membro o conformemente a principi comuni. Orbene, ciò non si verifica ancora attualmente (coesistenza di liste regionali e nazionali).

L'interesse di una procedura siffatta è che essa consentirebbe di garantire una migliore rappresentatività delle varie tendenze politiche europee nell'ambito del Parlamento europeo.

Dopo numerosi dibattiti e disaccordi, il Consiglio e il Parlamento hanno finalmente trovato un'intesa su quattro punti che, ferma restando la situazione attuale, armonizzano la procedura elettorale per le elezioni europee:

• Il metodo di scrutinio di lista di tipo uniforme corrisponde all'elezione con il sistema proporzionale a scrutinio di lista o scrutinio uninominale preferenziale con riporto di voti (specificità irlandese);

• il voto può essere preferenziale;

• i vari collegi (nazionali o regionali) possono sussistere purché essi non incidano sul carattere proporzionale del sistema elettorale. Ad uno stadio ulteriore, occorrerà creare collegi regionali per i paesi di oltre 20 milioni di abitanti;

• la soglia minima per partecipare all'attribuzione dei seggi è del 5% dei voti espressi.

Tuttavia, le disposizioni normative relative al voto e all'elezione restano perlopiù differenziate: in particolare, le date delle elezioni, i collegi elettorali, l'applicazione del sistema proporzionale, il cumulo dei mandati, le condizioni di voto e di eleggibilità e la promozione della parità. Per quanto riguarda i collegi elettorali, gli Stati membri hanno perlopiù adottato il sistema del collegio unico (il territorio nazionale costituisce un unico collegio elettorale). Gli altri Stati membri hanno vari collegi elettorali: l'Irlanda, il Regno Unito, la Germania, l'Italia, la Grecia, il Belgio, la Polonia e la Francia che, dall'entrata in vigore della legge dell'aprile 2003, ha sostituito il collegio elettorale unico con otto collegi interregionali.

A lungo termine, il Parlamento intende evolvere verso un collegio unico nell'ambito dell'Unione europea.

- Statuto dei deputati europei In virtù dell'articolo 190 del trattato che istituisce la Comunità europea, il Parlamento europeo fissa lo statuto e le condizioni generali di esercizio delle funzioni dei suoi membri previo parere della Commissione e approvazione del Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata (ad eccezione del regime fiscale dei membri che richiede l'unanimità).

Dopo circa dieci anni di trattative tra il Parlamento europeo e il Consiglio, è stato finalmente approvato nel settembre 2005 un nuovo statuto.

Questo nuovo statuto dei deputati europei pone un termine alla disparità di retribuzione dei deputati europei a seconda del loro paese di origine, prevedendo uno stipendio uniforme di 7.000 euro mensili sottoposti ad imposta comunitaria. Attualmente, i deputati europei sono infatti remunerati dai Parlamenti dei rispettivi paesi d'origine e percepiscono in genere la stessa retribuzione dei loro omologhi nazionali.

I principali cambiamenti introdotti dal nuovo regime riguardano anche:

• il rimborso delle spese sostenute nel quadro dell'esercizio del mandato sulla base dei costi reali e non su una base forfettaria;

• il finanziamento delle retribuzioni concesse ai deputati europei dal bilancio comunitario e non più dai bilanci nazionali;

• la fissazione dell'età di pensionamento a 63 anni e la presa a carico integrale delle pensioni da parte del Parlamento europeo;

• la possibilità per gli Stati membri, a complemento dell'imposta europea che sarà percepita sulla retribuzione, di applicare un tasso di imposizione conforme al regime fiscale nazionale.

Il nuovo statuto entrerà in vigore il primo giorno della legislatura del Parlamento europeo che avrà inizio nel 2009.

- Statuto dei partiti politici europei Il regolamento relativo allo statuto e al finanziamento di partiti politici a livello europeo è entrato in vigore nel 2004. Esso stabilisce le condizioni necessarie al riconoscimento di un partito politico a livello europeo, riconoscimento che dà diritto al finanziamento comunitario:

• possedere la personalità giuridica nello Stato membro in cui esso ha la sede;

• essere rappresentato da membri eletti al Parlamento europeo o in assemblee legislative a livello nazionale o regionale in almeno un quarto degli Stati membri. Un'alternativa è avere ottenuto perlomeno il 3% dei suffragi espressi nelle ultime elezioni al Parlamento europeo in ciascuno di questi Stati membri (un quarto);

• rispettare i principi dell'Unione europea;

• aver partecipato alle elezioni europee o averne espresso l'intenzione.

Lo statuto determina anche le condizioni necessarie per poter accedere al finanziamento comunitario (8,4 milioni di euro l'anno): pubblicazione delle spese e dei redditi annuali, dichiarazione delle fonti di finanziamento e divieto di accettare determinati doni. I fondi comunitari devono essere utilizzati per coprire le spese legate al programma politico e non possono in alcun caso servire al finanziamento dei partiti politici nazionali.

Il Partito Popolare Europeo (PPE), il Partito del socialismo europeo (PSE), l'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa (ADLE), il Partito Verde Europeo (PVE) e il Partito della Sinistra unitaria europea (GUE) sono esempi di formazioni che si sono costituite come partiti a livello europeo.



TRATTATO di LISBONA

Il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, dota l'Unione europea di istituzioni moderne e di metodi di lavoro ottimizzati per rispondere in modo efficace ed efficiente alle sfide del mondo di oggi. In una realtà in rapida evoluzione, per affrontare temi quali la globalizzazione, i cambiamenti climatici, l'evoluzione demografica, la sicurezza e l'energia gli europei guardano all'UE. Il trattato di Lisbona rafforza la partecipazione democratica in Europa e la capacità dell'UE di promuovere quotidianamente gli interessi dei propri cittadini. In 50 anni l'Europa è cambiata, il mondo è cambiato.

Oggi più che mai, in un mondo globalizzato in costante mutamento, l'Europa è chiamata ad affrontare nuove sfide. La globalizzazione dell'economia, l'evoluzione demografica, i cambiamenti climatici, l'approvvigionamento energetico, per non parlare delle nuove minacce che gravano sulla sicurezza, sono i grandi temi con i quali l'Europa del XXI secolo deve misurarsi.

Gli Stati membri non sono più in grado di affrontare da soli tutte queste nuove problematiche che non conoscono frontiere. Per farvi fronte e rispondere alle preoccupazioni dei cittadini serve uno sforzo collettivo a livello europeo. Tuttavia, per poter fronteggiare queste sfide l'Europa deve modernizzarsi. Deve disporre di strumenti efficaci e coerenti che siano adatti non soltanto al funzionamento di un'Unione europea recentemente passata da 15 a 27 Stati membri, ma anche alle rapide trasformazioni del mondo attuale. Le regole di vita comune, stabilite dai trattati, vanno perciò rinnovate.

È questo l'obiettivo del trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007. Tenendo conto delle evoluzioni politiche, economiche e sociali e volendo rispondere alle aspirazioni degli europei, i capi di Stato e di governo hanno convenuto nuove regole che disciplinano la portata e le modalità della futura azione dell'Unione. Il trattato di Lisbona consente pertanto di adeguare le istituzioni europee e i loro metodi di lavoro, di rafforzare la legittimità democratica dell'Unione e di consolidare i valori fondamentali che ne sono alla base.

Il trattato di Lisbona è frutto dei negoziati condotti dagli Stati membri all'interno di una conferenza intergovernativa, ai cui lavori hanno partecipato anche la Commissione e il Parlamento europeo. Il trattato è stato ratificato da ciascuno dei 27 paesi dell'UE. Spettava a questi ultimi definire, in base alle rispettive norme costituzionali, come procedere alla ratifica.

A norma dell’articolo 6 del trattato di Lisbona, il testo è entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

Il trattato in sintesi

Il 1° dicembre 2009 il trattato di Lisbona è entrato in vigore, mettendo fine a diversi anni di negoziati sulla riforma istituzionale.

Il trattato di Lisbona modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, senza tuttavia sostituirli. Il nuovo trattato dota l’Unione del quadro giuridico e degli strumenti necessari per far fronte alle sfide del futuro e rispondere alle aspettative dei cittadini.

1. Un’Europa più democratica e trasparente, che rafforza il ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, offre ai cittadini maggiori possibilità di far sentire la loro voce e chiarisce la ripartizione delle competenze a livello europeo e nazionale.

• Un ruolo rafforzato per il Parlamento europeo: il Parlamento europeo, eletto direttamente dai cittadini dell’UE, è dotato di nuovi importanti poteri per quanto riguarda la legislazione e il bilancio dell’UE e gli accordi internazionali. In particolare, l’estensione della procedura di codecisione garantisce al Parlamento europeo una posizione di parità rispetto al Consiglio, dove sono rappresentati gli Stati membri, per la maggior parte degli atti legislativi europei.

• Un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali: i parlamenti nazionali possono essere maggiormente coinvolti nell’attività dell’UE, in particolare grazie ad un nuovo meccanismo per verificare che l’Unione intervenga solo quando l’azione a livello europeo risulti più efficace (principio di sussidiarietà). Questa maggiore partecipazione, insieme al potenziamento del ruolo del Parlamento europeo, accresce la legittimità ed il funzionamento democratico dell’Unione.

• Una voce più forte per i cittadini: grazie alla cosiddetta “iniziativa popolare”, un gruppo di almeno un milione di cittadini di un certo numero di Stati membri può invitare la Commissione a presentare nuove proposte.

• Ripartizione delle competenze: la categorizzazione delle competenze consente di definire in modo più preciso i rapporti tra gli Stati membri e l’Unione europea.

• Uscita dall’Unione: per la prima volta, il trattato di Lisbona riconosce espressamente agli Stati membri la possibilità di uscire dall’Unione.

2. Un’Europa più efficiente, che semplifica i suoi metodi di lavoro e le norme di voto, si dota di istituzioni più moderne e adeguate ad un’Unione a 27 e dispone di una maggiore capacità di intervenire nei settori di massima priorità per l’Unione di oggi.

• Un processo decisionale efficace ed efficiente: il voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio viene esteso a nuovi ambiti politici per accelerare e rendere più efficiente il processo decisionale. A partire dal 2014, il calcolo della maggioranza qualificata si baserà sulla doppia maggioranza degli Stati membri e della popolazione, in modo da rappresentare la doppia legittimità dell’Unione. La doppia maggioranza è raggiunta quando una decisione è approvata da almeno il 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell'Unione.

• Un quadro istituzionale più stabile e più semplice: il trattato di Lisbona istituisce la figura del presidente del Consiglio europeo, eletto per un mandato di due anni e mezzo, introduce un legame diretto tra l’elezione del presidente della Commissione e l’esito delle elezioni europee, prevede nuove disposizioni per la futura composizione del Parlamento europeo e stabilisce norme più chiare sulla cooperazione rafforzata e sulle disposizioni finanziarie.

• Migliorare la vita degli europei: il trattato di Lisbona migliora la capacità di azione dell’UE in diversi settori prioritari per l’Unione di oggi e per i suoi cittadini. È quanto avviene in particolare nel campo della “libertà, sicurezza e giustizia”, per affrontare problemi come la lotta al terrorismo e alla criminalità. La stessa cosa si verifica, in parte, anche in ambiti come la politica energetica, la salute pubblica, la protezione civile, i cambiamenti climatici, i servizi di interesse generale, la ricerca, lo spazio, la coesione territoriale, la politica commerciale, gli aiuti umanitari, lo sport, il turismo e la cooperazione amministrativa.

3. Un’Europa di diritti e valori, di libertà, solidarietà e sicurezza, che promuove i valori dell’Unione, integra la Carta dei diritti fondamentali nel diritto primario europeo, prevede nuovi meccanismi di solidarietà e garantisce una migliore protezione dei cittadini europei.

• Valori democratici: il trattato di Lisbona precisa e rafforza i valori e gli obiettivi sui quali l'Unione si fonda. Questi valori devono servire da punto di riferimento per i cittadini europei e dimostrare quello che l’Europa può offrire ai suoi partner nel resto del mondo.

• I diritti dei cittadini e la Carta dei diritti fondamentali: il trattato di Lisbona mantiene i diritti esistenti e ne introduce di nuovi. In particolare, garantisce le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali rendendoli giuridicamente vincolanti. Il trattato contempla diritti civili, politici, economici e sociali.

• Libertà dei cittadini europei: il trattato di Lisbona mantiene e rafforza le quattro libertà fondamentali, nonché la libertà politica, economica e sociale dei cittadini europei.

• Solidarietà tra gli Stati membri: il trattato di Lisbona dispone che l'Unione e gli Stati membri sono tenuti ad agire congiuntamente in uno spirito di solidarietà se un paese dell’UE è oggetto di un attacco terroristico o vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo. Pone inoltre l’accento sulla solidarietà nel settore energetico.

• Maggiore sicurezza per tutti: la capacità di azione dell'Unione in materia di libertà, sicurezza e giustizia viene rafforzata, consentendo di rendere più incisiva la lotta alla criminalità e al terrorismo. Anche le nuove disposizioni in materia di protezione civile, aiuti umanitari e salute pubblica contribuiscono a potenziare la capacità dell'Unione di far fronte alle minacce per la sicurezza dei cittadini.

4. Un’Europa protagonista sulla scena internazionale, il cui ruolo viene potenziato raggruppando gli strumenti comunitari di politica estera, per quanto riguarda sia l’elaborazione che l’approvazione di nuove politiche. Il trattato di Lisbona permette all'Europa di esprimere una posizione chiara nelle relazioni con i partner a livello mondiale. Mette la potenza economica, umanitaria, politica e diplomatica dell’Europa al servizio dei suoi interessi e valori in tutto il mondo, pur rispettando gli interessi particolari degli Stati membri in politica estera.

• La nuova figura di alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche vicepresidente della Commissione, è destinata a conferire all'azione esterna dell'UE maggiore impatto, coerenza e visibilità.

• Un nuovo servizio europeo per l’azione esterna assiste l’alto rappresentante nell’esercizio delle sue funzioni.

• La personalità giuridica unica conferita all’Unione ne rafforza il potere negoziale, potenzia ulteriormente la sua azione in ambito internazionale e la rende un partner più visibile per i paesi terzi e le organizzazioni internazionali.

• La politica europea di sicurezza e di difesa, pur conservando dispositivi decisionali speciali, agevola la cooperazione rafforzata tra un numero ristretto di Stati membri.

La Lingua dei segni . Tesina di Gabriella Grioli ( prima parte )

LA LINGUA DEI SEGNI


La lingua dei segni non è una forma abbreviata di italiano, una mimica, un qualche codice morse o braille, un semplice alfabeto manuale o un supporto all’espressione della lingua parlata, ma una lingua con proprie regole grammaticali, sintattiche, morfologiche e lessicali. Si è evoluta naturalmente, come tutte le lingue, con una struttura molto diversa dalle lingue vocali, più comunemente conosciute, che utilizza sia componenti manuali (es. la configurazione, la posizione, il movimento delle mani) che non-manuali, quali l’espressione facciale, la postura, ecc. Ha meccanismi di dinamica evolutiva e di variazione nello spazio (i “dialetti”), e rappresenta un importante strumento di trasmissione culturale. È una lingua che viaggia sul canale visivo-gestuale, integro nelle persone sorde, e ciò consente loro pari opportunità di accesso alla comunicazione.


La LIS (Lingua dei Segni Italiana) è una delle tante lingue dei segni diffuse nel mondo su cui esiste ormai una considerevole letteratura, ma che stenta a trovare riconoscimenti e spazi, non solo giuridici, ma nello stesso immaginario collettivo. Questo sia in virtù dell'inferiorità di status che il gesto ha assunto rispetto alla parola nel sistema concettuale occidentale, sia perché non viene "trattata" da lingua ma come oggetto rispetto al quale assumere posizioni pro o contro. I segni raccontano: relazioni che dimostrano come la LIS non sia solo la lingua "delle persone sorde", ma rappresenti una dimensione preziosa in contesti complessi e diversificati: comunicazione, supporto didattico, risorsa per l'integrazione e per l'accessibilità, strumento di lavoro per molteplici professionalità. Questo libro, nato da una selezione delle ricerche, esperienze, proposte e sperimentazioni presentate in occasione del 3° Convegno sulla Lingua dei Segni Italiana, racconta di una lingua che è parte della vita di molte persone sorde e udenti e, proponendosi come strumento di lavoro per chi si occupa a diverso titolo di sordità, lingua dei segni e comunicazione, si dipana intorno a quattro tematiche: i profili professionali in evoluzione; la LIS come risorsa; le esperienze di bilinguismo e integrazione; i diritti, i servizi e l'accessibilità.

Può essere capitato di vedere persone sorde che usano le mani muovendole nell’aria. Non stanno cacciando le mosche, ma stanno comunicando tra loro: quei movimenti sono parole, affermazioni, insomma sono dei discorsi. Concetto comune tra gli udenti è che la comunicazione dei sordi sia diversa dall’italiano, considerandola una comunicazione povera, inferiore, poco adatta ad un’informazione colta; che non si tratti cioè di una lingua. Non è così. Quelli che usano i sordi non sono gesti e mimica, si tratta di segni, con una precisa grammatica, con regole per la declinazione dei verbi. Dunque si tratta effettivamente di una lingua. Un mimo può indicare una mela ma non può mimare la data di nascita o un altro carattere astratto; con la lingua dei segni si può.

Normalmente l’Uomo, per stabilire una comunicazione, fa uso della voce e, con essa, di una lingua, anche attraverso una forma scritta.

Al di là della voce e della scrittura, si è detto che la persona fa uso anche di altri segnali, come le immagini, le espressioni, i gesti ed i segni.

Quando una persona ha un deficit in qualcuno dei cinque sensi deve per forza di cose fare affidamento a quelli che ha. La lingua dei segni è preziosissima per i sordi, che naturalmente accrescono la loro capacità ottica, acquisendo anche una maggiore memoria visiva.

Tra i sistemi non verbali, l’espressione od il gesto da soli non sono sufficienti perché possono trasmettere solo termini concreti, come cose od animali, e non astratti, come numeri o verbi. Lo stesso dicasi, ovviamente, per la mimica che è l’unione delle due forme. Al linguaggio usiamo dare anche significati più ampi quando parliamo di “linguaggio degli animali”, o “dell’arte”, “delle piante”, “medico”, “burocratico” e così via.

Quando i gesti divengono simbolo, ecco che si parla di segni e, più propriamente di lingua dei segni. Tale lingua non può prescindere però dalle espressioni facciali, che ne fanno comunque parte integrante della grammatica.

La comunicazione verbale si esprime attraverso segnali che esprimono esternamente il pensiero, facendo perno sull’intelligenza del ricevente. Si distingue tra il “significato” ed il “significante”: il primo è il concetto in sé di quello che si vuole esprimere, mentre il secondo è la forma di espressione, come suoni o segni che servono ad esprimerlo.

Si effettua anche una “selezione” e “combinazione” delle parole da usare, sicché l’emittente (cioè chi esprime il concetto) manda al ricevente (colui al quale è destinato) un concetto (“referente”) attraverso un “messaggio” . Infine, altri due elementi sono indispensabili: il “codice”, cioè la forma in cui ci si esprime, come la lingua, ed il “canale”, cioè il modo, come la voce od il segno esistono codici anche non linguistici, come le espressioni o simboli convenzionali, spesso usati nei fumetti; significati diversi a seconda della disposizione delle penne sulla testa dei capi indiani ; i significati delle diverse posizioni delle bandierine per i marinai

Tutto quanto finora detto riguardo la comunicazione si ritrova anche nella lingua .ei segni usata dai sordi, anche con maggiori possibilità di comprensione. Infatti, a differenza degli udenti, le diverse comunità sorde del mondo hanno forme linguistiche diverse ma hanno in comune la grammatica ed altri parametri

Il termine “sordomuto” è relativamente recente

Non è vero che un sordo dalla nascita debba per forza essere muto: l’apparato vocale è indipendente da quello uditivo. In ogni caso ambedue possono leggere e scrivere e quindi comunicare con le altre persone normodotate e farsi una cultura.

A rendersi conto di ciò sembra essere stato per primo Rodolfo Agricola (1443-1485) che se ne meravigliò, ma la convinzione che i sordi fossero incapaci di ricevere un’istruzione non verrà messa in dubbio fino al XVII secolo. In Italia, invece, bisognerà aspettare il 1923 perché sia riconosciuto loro tale diritto.

Il primo ad affermare in modo esplicito che era possibile educare i sordi fu il medico italiano Girolamo Cardano (1501-1576) che sembra avesse anche elaborato un codice per l'insegnamento che purtroppo non sviluppò.

Fino alla fine del Settecento si trattava di un’educazione individuale, riservata ai figli di famiglie abbienti però, come i testi pubblicati stanno a dimostrare, il metodo di insegnamento consisteva in quello che si è poi definito “metodo orale”, che consisteva nel favorire l’uso della parola. Una

Una svolta venne con l’abate de l’Epée (1712-1789) che arrivò a fondare, nel 1760 a Parigi, la prima scuola per sordomuti. Proprio nella sua scuola, il de l’Epée si accorse che i suoi allievi usavano tra loro dei segni spontanei. Ne rimase colpito e cominciò a codificare tali segni. Ogni anno organizzava delle pubbliche prove del livello culturale cui i suoi allievi potevano arrivare.

Negli Stati Uniti d’America il metodo si radicò grazie a Thomas Hopkins Gallaudet , religioso del Connecticut, che venne in Europa alla scuola parigina e che, grazie all’aiuto di un sordo della stessa, divenuto educatore, Laurent Clerc , fondò nel 1817 ad Hartford la prima scuola americana per sordi e suo figlio Edward nel 1864 fonderà il Gallaudet College a Washington, destinato poi ad avere unita una università, ancora oggi unica al mondo del suo genere.

In Europa, si ebbero alcuni sviluppi grazie a studiosi quali Jean-Marc Itard, che può essere considerato il precursore di molte tecniche rieducative per bambini ritardati e la sua eredità sarà poi raccolta anche da Maria Montessori. Lui, che era stato un convinto sostenitore del metodo orale, negli ultimi anni della sua vita cambiò radicalmente parere, ritenendo che ogni rieducazione al linguaggio verbale doveva essere preceduta ed accompagnata dall’uso dei segni. Nella prima metà dell’Ottocento sono noti i nomi di alcune persone sorde, spesso insegnanti loro stessi, che scrivono su problemi ed argomenti relativi ai sordi.

L’Europa ebbe una battuta d’arresto nel 1880 a seguito di un Congresso internazionale tenutosi a Milano dove, contro il parere della parte favorevole alla lingua dei segni, di tutti i sordi presenti e di udenti stranieri come alcuni osservatori americani (Gallaudet e Penn), si arrivò alla conclusione di proibire in maniera assoluta negli istituti tale tecnica e di favorire esclusivamente il metodo orale.

Le conseguenze furono nefaste per le comunità sorde europee ed ancora oggi la mentalità in proposito continua ad elaborare metodi sempre più dannosi.

In America invece si progredì sempre più.

A partire dagli anni ’60 del Novecento, lo studioso William Stokoe decise di studiare questa forma di comunicazione con gli stessi strumenti linguistici degli studi sulle lingue esotiche. Egli ritrovò nella ASL (American Sign Language) una struttura per molti versi simile a quella delle lingue vocali, soddisfacendo a bisogni cognitivi, comunicativi ed espressivi di una comunità umana.

Lo Stokoe fu il primo formare un dizionario della lingua dei segni americana, dimostrando che anche tra i sordi c’è cultura e tradizioni in racconti e poesie, nonché un bagaglio di conoscenze da tramandare di generazione in generazione. Col suo lavoro rese i sordi consapevoli di possedere una vera e propria lingua.

Nel 1979 i ricercatori dell’Istituto di Psicologia del CNR hanno iniziato ad interessarsi al problema.

Nel 1995, a Trieste, si è tenuto il primo convegno nazionale della LIS, cui hanno partecipato sordi e udenti anche di altri paesi.

Fino a qualche anno fa la LIS non aveva nome.

L’istituto del CNR ha scelto invece “lingua dei segni” per almeno quattro motivi: innanzitutto si tratta di una vera e propria lingua e non di un semplice linguaggio; per avere un’equivalenza con le definizioni che si usano in altri paesi del mondo; perché i termini di “mimica” e “gestuale” può perpetuare l’equivoco di confonderla coi gesti usati dagli udenti; infine non ha fatto altro che recuperare la denominazione data dal Carbonieri nel 1858, prima dell’ostracismo del congresso del 1880.

Attualmente in Italia i sordi sono circa 70 mila, compresi tutti quelli che lo sono dalla nascita, quelli che lo sono diventati prima di imparare a parlare e quelli che invece lo sono da dopo. Una risoluzione del Parlamento europeo del 1988 ha invitato tutti i paesi al riconoscimento delle lingue

A causa della proibizione dell’uso di una lingua dei segni nazionale voluta nel congresso del 1880, sono nate spontaneamente lingue, o se vogliamo dialetti, nelle diverse comunità sorde, non solo regionali ma anche più di una all’interno della stessa città, a seconda dell’istituto di appartenenza.

L’esigenza moderna di una lingua nazionale dei sordi (L.I.S.) non esclude però che sopravvivano questi dialetti, naturalmente più ricchi

dei segni come lingue riconosciute tali, ma l’Italia, ancora oggi, non ha recepito l’indicazione comunitaria.

La LIS ha sue specifiche regole, sia lessicali che grammaticali che sfruttano potenzialità spaziali, ben diverse dall’italiano vocale

Le differenze derivano in parte dal diverso canale di comunicazione utilizzato: quello visivo-gestuale, diverso dunque da quello acustico-vocale. Benché si pensi sempre alla lingua dei segni come espressa unicamente con le mani, ad essa appartengono anche tutti quei movimenti non-manuali che le accompagnano, come quelli del corpo e dell’espressione, cioè degli occhi, del capo, delle spalle, della bocca. Ai segni si accompagnano le forme grammaticali specifiche.

Anche la Lis ha la sua fonetica. Essa è costituita da cinque parametri: la configurazione (cioè la postura delle mani), il luogo (lo spazio dove il segno si esprime), il movimento (assunto dalle mani), l’orientamento (la direzione assunta dalle mani), l’espressione (delle parti della testa e la postura del corpo).

Una forma di lingua dei segni è data dalla Dattilologia, che abbina un segno ad ogni lettera dell’alfabeto. Molto diffusa nella lingua dei segni americana, da noi è usata raramente, solo per parole difficili, nuove o straniere.









mercoledì 19 gennaio 2011

Attendo l'invio delle tesine

Per chi ancora non ha consegnato le tesine le invii a questo indirizzo mail:
danieladegiorgi@hotmail.it

Grazie .Ci vediamo per gli esami il 27/1/2011

domenica 16 gennaio 2011

Lezione n.5. Identità e comunità - Alain de Benoist

Identità individuali e identità collettive sono indissolubilmente legate.
  • L'alterità è il necessario complemento dell'identità. Le identità si costruiscono tramite l'interazione sociale, non esiste identità fuori dall'uso che se ne fà in rapporto con gli altri.

Anche una identità etnica non è solo endogena, ma si costruisce tramite le categorizzazioni che fanno gli altri e l'identificazione con il proprio gruppo di appartenenza.    L'identità è dialogena.
L'etnopsicologia studia le identità collettive legate ad un radicamento sul territorio di cui l'etnia è la forma originaria. Questa tipo di identità collettiva viene denominato etnotipo. L'etnotipo "risulta" da un "sistema di significati " ( politici,economici,ideologici), che sono in relazione dialettica con l'ambiente e con l'identità di altri gruppi.
L' etnotipo è solo un "idealtipo" che può essere studiato in maniera sistematica come "struttura in trasformazione". La propria "cultura di appartenenza" è la mediazione simbolica tra il  gruppo e gli altri, lo spazio entro cui si inseriscono le identità individuali , le prassi sociali e quindi il modo di vedere, di sentire, di agire dei vari componenti .

L'identità è in continua trasformazione ed ha molti risvolti perchè è multidimensionale. Max Weber parlava  di " politeismo di valori " . Ognuno di noi ha molteplici appartenenze : linguistiche,culturali,nazionali,politiche,professionali,sessuali,ecc. che a volta sono anche inconciliabili   
Identità e appartenenza non sono sinonimi, l'identità non si riduce all'appartenenza.   Difatti le scelte di appartenenza sono paragonabili ai dilemmi morali, si propongono quando due o più componenti identitarie entrano in conflitto. Il fenomeno della doppia fedeltà, tripla... (appartenenza familiare, appartenenza nazionale, appartenenza politica o ideologica), possono nascere dei conflitti di valore, e a quel punto quale parte della nostra identità prevarrà ?
Risoluzione del conflitto in termini di " Prossimità "
1°  PROSSIMITA'  NATURALE  EREDITATA  : la famiglia, il popolo, la etnia, la nazione, la cittadinanza, ecc
2°  PROSSIMITA'  IDEOLOGICA  ELETTIVA : intellettuale, politica, filosofica,relisiosa.
Es: se sono italiano e cristiano mi sento più vivino ad un italiano non cristiano, magari ateo o ad un cristiano asiatico od africano ? E se sono donna e comunista , mi sento più vicina ad un uomo comunista o ad una donna di destra ? La risposta dipende da quale gruppo ci sentiamo più vicini. Il quesito è : a chi mi sento più vicino?.
3°  NOZIONE DI MEMORIA :L'identità presuppone memoria, sia nell'uso individuale che collettivo.( famoso tema del dovere della memoria ) La memoria non va confusa con la nostalgia, che idealizza il passato, non implica la memoria, perchè il passato nella nostalgia è idealizzzato e quindi visto come perfetto.
La memoria non è statica considera il presente,il passato e il futuro come continui.

Differenza tra memoria e storia : La memoria diventa abusiva quando, facendosi militante , pretende di render conto della verità storica tout- court, mentre è una ricostruzione assolutamente soggettiva del ricordo collettivo.
Ogni approccio alla storia in termini di memoria è inevitabilmente soggettivo. La memoria non è mai integrale, filtra, seleziona, sceglie quanto a suo parere merita di essere trattenuto e trasmesso.
E' tanto memoria che oblio, tanto trasmissione che occultamento.
Anche la tradizione procede nello stesso modo. Anche nella tradizione sono le scelte soggettive del narratore identitario a decidere cosa si eredita.
La storia è un tutto che la memoria passa al vaglio trattenendo quello che è conforme all'idea del passato e all'immagine che intende dare al futuro. La cernita che compie la memoria nella storia , si tratti di storia reale, idealizzata o fantomatica, è soltanto un rilevatore di preferenze

La stessa variabilità soggettiva si ritrova nella ricerca delle origini 

Sussidiarietà - Cosa significa ?

"Quello della sussidiarietà è un principio di filosofia politica da tempo presente nella tradizione di pensiero della dottrina sociale della Chiesa cattolica, di recente acquisizione nell'ambito dell'ordinamento comunitario e, da ultimo, nel diritto interno .
Nasce nell'800 e viene esplicitata da un lato negli scritti di Proudhon ("la capacità politica della classe operaia") e dall'altro, appunto, nella dottrina sociale della Chiesa.



Con l'enciclica di Pio XI del 1931 , nelle Encicliche successive – Mater et Magistra del 1961, Pacem in terris del 1963 e, da ultimo, Centesimus Annus del 1991 , altresì nella nota pastorale della "Commissione ecclesiale Giustizia e Pace" del 1995, il principio di sussidiarietà riceve una sua sistemazione teorica, divenendo uno degli assi portanti dall'azione sociale della chiesa cattolica, tesa a valorizzare il ruolo delle società intermedie, quali la famiglia e le confessioni religiose rispetto allo stato, liberale e laico.
A partire dalla seconda metà del XX secolo, si è avuta una trasformazione del principio da un piano strettamente politico-filosofico a uno più propriamente giuridico.
"Il significato essenziale della sussidiarietà risiede nell'idea che una società, un'organizzazione o un'istituzione di ordine superiore a un'altra, non debba interferire nell'attività di quest'ultima, a essa inferiore, limitandola nelle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità, e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune."
Vale altresì la seguente definizione analitica: "Si dice principio di sussidiarietà quel criterio in base al quale un tipo di azione (o una specifica azione) spetta prioritariamente ad un determinato soggetto di livello inferiore rispetto ad un altro e può essere svolto in tutto o in parte da un altro soggetto, al posto o ad integrazione del primo, se e solo il risultato di tale sostituzione, è migliore (o si prevede migliore) di quello che si avrebbe o si è avuto senza tale sostituzione".
Da questa definizione si ricava un'ulteriore caratteristica della sussidiarietà, e cioè che essa ha un significato procedurale e non sostanziale, nel senso che non si può dire una volta per tutte che cos'è la sussidiarietà, ma si possono semplicemente predisporre delle regole che ne guidino, di volta in volta, l'accertamento. Si può altresì qualificare il principio di sussidiarietà come principio relazionale, in quanto avente a oggetto i rapporti tra entità diverse: tra i diversi livelli territoriali di Governo; tra gli enti territoriali e gli enti funzionali; tra la statualità e la società civile. I rapporti, poi, si vengono a caratterizzare sulla base della "decisione di preferenza", che agisce in favore dell'ambito più vicino agli interessati; salvo questo non si rivelasse inadeguato e allora verrebbe a giustificarsi l'intervento dell'ambito meno vicino.

Il principio di sussidiarietà può promanare dal basso verso l'alto.
Consiste nel fare svolgere all'ente gerarchicamente inferiore tutte le funzioni e i compiti di cui esso è capace, lasciando all'ente sovraordinato la possibilità di intervenire per surrogarne l'attività, laddove le risorse e le capacità dell'ente sottordinato non consentano di raggiungere pienamente e con efficacia ed efficienza la soddisfazione di un interesse o l'effettuazione di un servizio.
E' questo il caso del rapporto che può intercorrere tra comuni, province, regioni e Stato nazionale ad esempio in un ordinamento federale.
E' il tipo di sussidiarietà che caratterizza la legge Bassanini e quella che riforma gli ordinamenti locali.


Ma il principio di sussidiarietà viene applicato anche quando si verifica la supplenza dello Stato sovranazionale, (esempio Unione Europea). Ovvero l'intervento di un organismo più importante quando agisce, in caso di carenza di quello a più diretto contatto con la comunità, quale lo Stato nazionale. Oppure nel caso delle regioni, per supplire alla debolezza di quello inferiore ( province e comuni )

martedì 11 gennaio 2011

lezione n.4 " Identità e Comunità" di Alain de Benoist

GRUPPI IDENTITARI  E MARCATORI SOCIALI : NUOVI PARADIGMI SOCIOLOGICI

I gruppi identitari si suddividono in 4 grandi categorie:



1°  GRUPPI CULTURALI : regionalismi, autonomismi vari, popolazioni a rischio, minoranze religiose, etniche, gruppi di attribuzione, gruppi volontari, lobbies, gruppi religiosi
2°  GRUPPI DI ATTRIBUZIONE O DI IMPUTAZIONE
3°  GRUPPI VOLONTARI O LOBBIES
4°  GRUPPI RELIGIOSI

Il fattore centrale dell'esistenza di questi gruppi è l'Identificazione reciproca.
Si caratterizzano difatti intorno a dei marcatori sociali che li definiscono, in cui si riconoscono e che rappresentano la motivazione stessa  del loro essere raggruppati insieme. 

 I MARCATORI SOCIALI DI QUESTI GRUPPI  : li possiamo riconoscere dalle attese sociali rispetto ai comportamenti degli appartenenti al gruppo, la presunzione di sapere come gli individui legati al gruppo uniformemente pensano, agiscono, si comportano.

I marcatori sociali hanno una dimensione soggettiva e oggettiva. Creati dal gruppo stesso o attribuiti dall’esterno in modo ostile o benevolo.
L'atteggiamento del gruppo è cercare di trasformare i marcatori sociali ostili in positivi
Il gruppo tenderà a egemonizzare anche i marcatori sociali ostili e a trasformarli in marcatori positivi.( vedi : gli omosessuali con " orgoglio gay," i neri americani con "nero è bello", anoressia resa desiderabile con "ano è bello", ecc)

I marcatori sociali non variano, varia  IL SIGNIFICATO che il gruppo attribuisce ai valori a  loro attribuiti.

Etnico "ora"  è" bello e interessante", questo è un marcatore sociale, in passato l’etnicità non aveva un valore politico o esistenziale,ma squisitamente bio-antropologico. Oggi è anche "culturale", diviene fattore di differenziazione sociale e di categorie legate all’azione politica.

Secondo questa osservazione si è arrivati a valutare un nuovo paradigma sociale secondo cui :
 1° nelle società moderne sopravvivono fedeltà alle comunità di origine,
  le società tradizionali sono eterogenee. 
Queste due acquisizioni portano a rettificare due idee tramandate nel tempo: quella secondo cui i gruppi etnici costituiscono comunità omogenee e quella secondo cui i gruppi etnici sono destinati a scomparire con la modernizzazione.


Quindi le comunità etniche non costituiscono comunità omogenee,e non tendono a scomparire con la modernizzazione.
Si svela un nuovo paradigma per le scienze sociali che consiste nelle fedeltà comunitarie all’interno delle società moderne e sulla eterogeneità delle società tradizionali.




2°  GRUPPI DI INTERESSE: I gruppi di interesse si possono costituire senza che ci sia tra i membri un’identificazione reciproca, basta condividere lo stesso interesse strumentale insieme.
I gruppi di interesse non vanno confusi con i gruppi identitari. Questi si possono creare senza che tra i membri vi sia una sorta di identificazione reciproca. Basta condividere un interesse strumentale con gli altri membri del gruppo.
La differenza tra i gruppi identitari e i gruppi di interesse è grande, anche i gruppi identitari cercheranno di difendere i loro interessi, e lo fanno il più delle volte, ma questa attività è conseguenza dell’esistenza del gruppo, non è il suo motivo d’essere

.I paradigmi di differenza :La politica dei gruppi identitari si lega a quello che le persone sono , mentre nei gruppi di interesse a quello che le persone vogliono.

Le democrazie liberali contemporanee vivono la presenza e il riapparire dei gruppi identitari come una sorta di minaccia, pensavano di aver superato le fasi comunitarie, le relazioni organiche, viste come si è detto prima, " limitanti" rispetto alla libertà individuale.Vivono spesso in maniera ostile questi gruppi, mentre ammettono e a volte favoriscono, senza difficoltà , i gruppi di interesse.Avvertono la natura dei gruppi di interesse pacifica,mentre quella dei gruppi identitari come conflittuale.
Ricordano che gli interessi sono sempre negoziabili, i valori no. Per questo viene posto maggiormente l'accenno sui difetti, a volte anche reali di queste comunità, e ne presentano spesso solo l'immagine patologica.

Le domande identitarie sono quindi trattate come fenomeno “reazionario” irrazionale, una forma di ritorno al passato. Tentativi di sottrarsi ad una legge comune,tentativi di creare uno Stato nello Stato.
Si danno per legittime le identità elettive a scapito delle identità ereditate.
Il rifiuto di riconoscere le identità è stato molto marcato  nella tradizione " Repubblicana " del giacobismo francese, le differenze collettive venivano tutte collocate nella sfera del privato. La Nazione è stata ridefinita come uno spazio postcomunitario, ossia uno spazio politico fondato sul principio normativo dell'omogeneità culturale ed etnica.


Nello stesso momento, la nozione di cittadinanza viene portata ad un livello universale (privata quindi del sbstrato specifico)  . Implica una tabula rasa, ogni particolarismo equivale ad un tentativo di secessione. Essere repubblicano significa rifiutare le differenze,o rifiutare, se esistono, il loro riconoscimento pubblico. Si antepongono  le somiglianze alle differenze.

Montesquieu : quello che definisco virtù nella Repubblica è l’amore della patria, cioè l’amore dell’uguaglianza!

Tocqueville:la libertà presuppone anzitutto la possibilità e l’accettazione della differenza.


Le accuse attuali contro la nostra società, denunciano lo stesso problema, la problematica è sempre stata posta. Si può conciliare parità di diritti e diritto alla libertà ? Spesso sotto le sembianze dell’uguaglianza, dissimuliamo un profondo desiderio di uniformità, che non è senza pericoli. Si resiste difficilmente alla tentazione di voler cancellare le differenze tra la nostra cultura e tutte le altre, ridurre l’altro ad essere una parte di noi. La denuncia attuale della rivendicazione identitaria, fatta in nome della Repubblica o dalle esigenze della globalizzazione , non fa che riprendere il discorso assimilazionista giacobino, che considerava la volontà di salvaguardare le differenze e le identità tradizionali come un rifiuto del “progresso” L’appartenza ai valori repubblicani deve prevalere sulle altre appartenenze. Si tratta di eliminare le differenze e le identità sociali e culturali reali per porre al di sopra di tutto un’appartenenza alla nazione, assimilando i valori repubblicani a valori universali.



L’idea ricorrente secondo cui le differenze e il riconoscimento delle stesse costituirebbero fonte di conflitto, fa il palio con quella che anche le somiglianze possono produrre conflitto. ( rivalità mimetica ) La somiglianza acuisce le differenze (voglia di distinguersi,di opporsi, di essere se stessi )

Storicamente si è notato che il rifiuto del riconoscimento provoca aggressività.

I fautori dell’idea repubblicana sostengono che se una società riconosce le differenze non può più mettere in pratica la nozione di interesse generale o di bene comune. Un esempio opposto: gli Stati Uniti che pur avendo riconosciuto comunità diverse non ha visto intaccarsi il patriottismo americano.. E’ la neutralità delle società liberali a spingere i gruppi ad affermarsi e a non riconoscere altro al di fuori.

Ci vuole una politica di riconoscimento delle differenze , associata ad una estensione della partecipazione democratica e alla rinascita della nozione di cittadinanza fondata sul principio della sussidiarietà.


L’esistenza di gruppi identitari non è incompatibile con la democrazia. La democrazia riconosce l’uguaglianza POLITICA dei cittadini, non nega le loro particolarietà, fino a che le differenze restano compatibili con la legge comune. La diversità non è estranea alla cittadinanza, e la cittadinanza non è sinonimo di uniformità.

Lezione n.3 - Identità e comunità - di Alain de Benoist

Sull' Identità due punti di vista :  Il Liberalismo e il Comunitarismo

Il liberalismo mette al primo posto l’individuo che viene considerato una monade libera. I fatti sociali nascono dalla interazione tra individui.Il liberalismo attribuisce diritti uguali agli individui che sono rappresentanti di una umanità indifferenziata. L’individuo in quanto tale è titolare di diritti.



In opposizione al liberalismo si colloca il punto di vista del

comunitarismo.secondo cui l’uomo è un animale sociale, l’individuo non può esistere se non in società. E’ un essere-in-relazione,membro di una comunità particolare,politica,culturale,religiosa.
Esiste per ogni individuo un orizzonte di valori in cui è sempre inserito, in un campo culturale e storico-sociale. E' dentro questo contesto che l'uomo giudica se stesso. Sin dalla nascita siamo situati, siamo obbligati a tenerne conto anche solo per allontanarcene. Questo ci porta ad una coscienza riflessiva e ci fa interrogare sul valore delle cose.

Sono sinonimi di questa condizione le cosidette comunità costitutive, significati condivisi, orizzonti di significati, comunità di memoria. L’uomo parte da dei valori precostituiti che rappresentano la storia e i valori di una cultura particolare che gli permettono di formulare desideri e fare scelte. La cultura è l’orizzonte interno nel quale si è capaci di prendere posizione.
Quindi cultura non è un semplice strumento al servizio del benessere individuale o uno spettacolo di consumo. La cultura non è associativa, è preesistente, è la tela in cui si iscrive l’identità personale. La comunità culturale è luogo di riconoscimento reciproco, della stima di sé. E’ comunità di senso, di significato. Le comunità costitutive sono un modo di essere al mondo, forniscono un modo di pensare.

Al principio liberale atomistico disimpegnato, il pensiero comunitaristico oppone i limiti, l’orizzonte ,entro cui si vive con le relative discriminazioni qualitative.
L’uomo non è un soggetto solo nel mondo e non lo puoi astrarre senza mutilarlo , l’uomo da solo non è più libero, ma più solo, più vulnerabile.

Lo scontro tra le due posizioni avviene sul discorso della libertà : per i liberali la libertà di scelta è indipendente da ogni contesto culturale, padrone delle sue scelte l’uomo colloca il suo io a monte dei suoi stessi fini.

Per i comunitaristi questa visione ideale di un mondo dove individui autonomi scelgono di liberamente forgiare i propri legami o di romperli senza la minima costrizione è una falsa utopia.


Per la filosofia liberale l’uomo ha la capacità e quindi la libertà di revocare le sue appartenenze e quindi l’io preesiste sempre ai suoi fini.

Per i comunitaristi noi definiamo i nostri fini in funzione di ciò che ci ha costruito e quindi la comunità a cui apparteniamo è costitutiva del nostro io. Sia se si aderisca o si rompa con le tradizioni , le nostre scelte avvengono sempre su uno sfondo culturale già esistente. L’uomo scopre i suoi fini, costruisce la sua identità all’interno dei valori e delle finalità che circoscrivono la sua esistenza e che dipendono dallo spazio culturale e storico sociale specifico.

Per i liberali il valore che ricercano nelle proprie azioni è il giusto, (quello che è giusto fare, o morale deontologica )

Per i comunitaristi è legata a valori morali e quindi al bene, ciò che è bene essere o morale aretica )Il primato del bene sul giusto equivale al primato di una morale fondata su valori intrinseci, quindi ad una procedura comportamentale che privilegia l’obbligo. E’ soltanto partendo da un contesto culturale e storico sociale e non dal soggetto isolato e dal ragionamento astratto che si pone una questione morale.

Per i liberali la comunità politica non è altro che la somma dei beni di cui si permette il godimento a tutti. Il bene ha sempre e solo una finalità individuale, ossia costituisce un bene per ogni cittadino preso individualmente.

Per i comunitaristi la comunità implica il comune e la condivisione del comune e del condivisibile.
Le comunità fondate sul valori condivisi sono più solide e stabili di quelle fondate su interessi, perché i valori uniscono e si condividono senza difficoltà, mentre gli interessi dividono e si non si condividono facilmente.

La moderna concezione liberale volendo assicurare l’autonomia agli individui spesso si è trovata in contraddizione. Si è sforzata di consentire agli individui di liberarsi da ruoli sociali fissi e dalle identità tradizionali, incoraggiando un ideale di autonomia individuale. In qualche modo libertà e cultura sono state poste dialetticamente, si era più liberi nella misura in cui ci si staccava dalle determinazioni legate alla nascita.
L’attaccamento alla cultura di origine valutato come alienante e irrazionale.
Ma questo desiderio di modernità invece che indebolire le identità culturali collettive, non ha fatto altro che rafforzarle, stimolarle. La loro autonomia è compresa all’interno della loro cultura nazionale che costituisce il contesto nel quale si esercita al meglio la loro autonomia.
Anche una critica radicale alla propria cultura di appartenenza, non può che partire proprio che da questa stessa appartenenza.

ADORNO : bisogna avere in se stessi una tradizione per poterla odiare bene !




IDENTITA’ E RICONOSCIMENTO




Fu Hegel il primo a sottolineate nel 1807 l’importanza del concetto di “riconoscimento “ : la coscienza di sé passa attraverso il riconoscimento dell’altro.

E’ importante sia dal punto di vista individuale che collettivo. Non esiste prima una identità che dopo viene riconosciuta, ma il riconoscimento “ realizza “ l’identità. “ E’ la condizione dell’identità riuscita .Riconoscere il diverso da noi significa che ci assomigliamo in ciò che ci rende diversi, quindi non si riconosce privando della sua differenza e cercando di assimilarlo, bensì nel riconoscere l’alterità . L’universale non è ciò che resta dopo aver abolito le differenze , ma ciò che si nutre delle differenze e delle particolarità. La natura umana ha modalità molteplici, non è unitaria, ma differenziata.

Problema del riconoscimento delle identità nell’ottica della crisi dello Stato- Nazione occidentale.


BAUMAN: La produzione di identità, alla stregua del resto dell’industria si è deregolamentata e privatizzata, lo stato nazione non riesce più ad integrare i gruppi né a produrre il legame sociale. I membri dello comunità- stato non avvertono più un sentimento di unità, una ragione per vivere o morire, una ragione per sacrificare il proprio interesse personale , la propria vita per una nozione che travalichi la loro individualità..
Le identità nazionali si disgregano, a beneficio di altre forme di identità. Fondamentale è la sfera pubblica è la politica il terreno in cui si svolge la contesa per il riconoscimento della identità (culturale,linguistica,religiosa, sessuale,) il diritto di restare se stessi, svolge un ruolo essenziale nei conflitti sociali e politici attuali.

L’egualitarismo di vecchio stampo ostile alle differenze come portatore di una visione uniformante del mondo, non è altro che un principio culturale travestito in principio universale.


La rivendicazione identitaria ha smascherato un universalismo morale e politico che mascherava spesso pratiche di dominio (culturale politico economico)


Bisogna inventarsi una politica di riconoscimento. Di RECIPROCO RICONOSCIMENTO.


La reciprocità del riconoscimento è un punto essenziale.. Politica del riconoscimento non significa teoria del relativismo. Rispettare la differenza non significa non avere un giudizio morale sulla differenza. . Dire che tutti i valori sono uguali equivale a dire che nulla vale, ma usare cautela nell’universalizzare il giudizio e nel porre norme al suo riguardo dal punto di vista del diritto.

Contatore accessi

Lettori fissi

Cerca nel blog