mercoledì 17 febbraio 2010

METTIAMO ORDINE AI RICORDI .Per una revisione della Legge Basaglia

Mettiamo ordine ai ricordi.

Per una revisione della Legge Basaglia.



In questi giorni è iniziato l’esame in XII Commissione Parlamentare (Affari Sociali ) della proposta di legge Cicciòli sulla riforma psichiatrica. Dopo trent’anni dall’entrata in vigore della legge Basaglia del 1978, è nata l’esigenza di una nuova normativa in proposito. Con una tempistica ad “orologeria“, RAIUNO ha mandato in onda in due puntate il programma “La città dei matti”, che ci ha narrato la coraggiosa vita di Franco Basaglia e le vicissitudini della lotta che portò alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici in Italia. E’ stato un buon prodotto televisivo, ottima la regia e le interpretazioni. Le emozioni provocate dalla visione del filmato hanno riaperto la finestra del passato. Come eravamo a quei tempi? Riconosco che in questo tentativo sto mettendo mano a qualcosa di poco obiettivo come il vissuto personale, il ricordo. C’era nel filmato un romanticismo ed una leggerezza sconosciuta a quei tempi. Capita, ai prodotti culturali di tipo commemorativo, il rischio di cadere nella mitizzazione della storia raccontata! Sì, perché tutto erano quei tempi fuorchè romantici!

L’Italia stava vivendo uno dei momenti più difficili e conflittuali della sua breve vita democratica. Per collocare nel ricordo gli avvenimenti la legge Basaglia viene promulgata il 13 maggio del 1978, una settimana dopo il 6 Maggio, giorno dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. La battaglia per la chiusura dei manicomi si svolge tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni settanta, in un paese completamente in balìa culturalmente e politicamente dell’ideologia di sinistra. Il movimento “ antiistituzionale basagliano” si è, fin dagli esordi, legato ai vari movimenti di contestazione. La questione psichiatrica uscendo dall’ambito prettamente specialistico, fu collegata alla lotta di classe.

Vero è che l’ospedale psichiatrico in Italia, come in altre parti nel mondo, rispondeva alla metà degli anni ’50 a un paradigma psichiatrico costruito nell’800. La legge manicomiale italiana del 1904, voluta da Giolitti, confermò e reiterò la realizzazione di luoghi di forte controllo sociale generalizzato. Durante il fascismo, con il codice Rocco si istituì la iscrizione dei ricoverati nel casellario giudiziale, omologando i pazienti ai pregiudicati. Questo influenzerà il futuro delle istituzioni e la loro gestione. Metodi repressivi, trattamenti fortemente invasivi. L’elettroshock fu un’ invenzione italiana (Cerletti e Bini, 1938), si praticava lo shock insulinico ed altri metodi che provocavano la demolizione di aree cerebrali. I pazienti psichiatrici erano depauperati di ogni diritto, e sulla base di un “giudizio legale di non cittadinanza” fu possibile realizzare, all’interno del potere nazista, lo sterminio di circa 200.000 pazienti e “ l’eutanasia dolce” di altre decine di migliaia di ricoverati in Italia ed in Francia.

Nel clima di contestazione degli anni ’68-‘78 l’istituzione psichiatrica diviene uno dei riferimenti principali nella lotta all’antiautoritarismo, al rifiuto del mito della scienza naturale. Una “Lotta Simbolo“ diremo, proprio per il suo legame con i problemi di ordine pubblico, per la definizione del concetto e dei limiti della norma, per quei processi di mantenimento dell’assetto sociale su cui la norma si fondava. All’interno della lettura in chiave di ”lotta di classe“, fu denunciata la natura classista della segregazione manicomiale, ci fu la presa di coscienza, e quindi il rifiuto del ruolo repressivo e segregante che la società delegava ai medici psichiatri e ai diversi operatori del settore rispetto ai malati.

Questa era l’atmosfera politico culturale di quegli anni. Sull’onda emotiva dei ricordi, e per giustificare la mia scesa in campo rispetto al tema, vorrei testimoniare la mia esperienza. Nel 1976, arrivata alla conclusione del mio iter di esami presso la facoltà di Sociologia, chiesi di poter effettuare la mia tesi di Laurea sperimentale presso l’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma. C’era grande necessità conoscitiva rispetto ai problemi psichiatrici nel territorio e partirono due ricerche grazie al lavoro di studenti, operatori del CIM, dell’Istituto di Psicologia, dell’Istituto Superiore della Sanità e dell’’Istituto di Psicometria. La ricerca a cui partecipai durò 6 mesi e fu effettuata al S. Maria della Pietà di Roma. La seconda fu svolta presso tutte le Cliniche Private Psichiatriche della Provincia di Roma. Questi lavori furono pubblicati nell’anno 1977 dalla rivista “ Il lavoro neuropsichiatrico” edito dall’Amm. Prov. di Roma. Presumo siano quindi gli ultimi dati, scientificamente rilevati, sul territorio della Provincia di Roma, prima dello smantellamento dell’O.P. Le finalità della ricerca erano quelle di effettuare una sorta di mappa territoriale dei ricoverati ed evidenziare i gruppi sociali più a rischio. Individuare attraverso quali canali si arrivava al ricovero, quanta richiesta di ospedalizzazione c’era e di che tipo. Quanto il tempo di permanenza, considerate diverse varianti. Non intendo ovviamente dilungarmi su una ricerca di trenta anni fa, ma è importante ricordare che i posti letto psichiatrici tra i due O.P (S.Maria della Pieta’ e Ceccano) i due Istituti per cronici (Guidonia e Genzano ) e le diciotto Cliniche psichiatriche convenzionate, erano 5858. Alcune delle ipotesi da cui eravamo partiti ebbero conferma, altre no. Complessivamente dalle diagnosi di dimissione di evinceva che il 43% dei ricoveri erano casi non prettamente psichiatrici che potevano essere gestiti dai servizi territoriali (handicap, epilessia, alcolismo, tossicodipendenza, arteriosclerosi, nevrosi, caratteropatie). Il 57% risultavano essere casi psichiatrici conclamati con diagnosi di psicosi, schizofrenia, sindrome maniaco depressiva. Non fu dimostrato l’utilizzo dell’ O.P come parcheggio-deposito del malato da parte della famiglia nei mesi estivi, anche rispetto agli anziani le percentuali dei ricoveri rimasero costanti. Fu dimostrato il rapporto di dipendenza che si creava tra Istituzione e paziente, sia nei malati cronici, sia nei non cronici (si pensi alle entrate e uscite continuative degli alcoolisti). L’O.P era vissuto come luogo protettivo dove il malato era accettato. Fu dimostrato il ruolo repressivo dell’Istituzione specialmente nei ricoveri effettuati tramite gli Ospedali Generali.

Questo sguardo verso il passato serve per storicizzare gli avvenimenti, collocarli nella giusta prospettiva politico culturale in cui sono avvenuti. Chiudere per sempre quel “tipo” di Ospedale Psichiatrico, con le caratteristiche che gli erano state demandate di assistenza, coercizione, repressione dei fenomeni devianti, è stata cosa giusta, come lo è stata la battaglia di quegli anni. Giusta ma ideologica. Con questo voglio dire che si buttò con un unico gesto l’acqua sporca e il bambino. Non si pensò ad un nuovo modello, un intervento terapeutico moderno, rispettoso dei diritti dell’individuo. Non si mise al primo posto il malato e quindi non si ripartì da questo. Si ripartì dal voler dimostrare che la malattia mentale non esisteva, che era il frutto delle contraddizioni della società capitalistica. In questa ottica la prematura morte di Franco Basaglia nel 1980 non semplificò la realizzazione della legge 180. Il gruppo dei basagliani rifiutò tutti i possibili progetti di modernizzazione che furono letti solo in chiave di riformismo politico volti a neutralizzare i conflitti sociali. Affermarono che la malattia mentale non si poteva diagnosticare sul piano organico in maniera precisa (vedi gli esperimenti di Rosenhan di cui Jervis nel 1975 riferisce nel suo “Manuale critico di psichiatria”) e quindi la follia rimaneva sempre una ipotesi, e quindi, un giudizio. Seguendo questa logica di negazione della malattia, anche nello sceneggiato “La città dei matti” ambientato a Trieste non c’era traccia dei malati gravi, di quel 57% che a Roma erano conclamatamente riconosciuti tali. Trieste città immune da psicosi ?! La malattia mentale è caratterizzata dalla non consapevolezza dello star male e da questo deriva la grande difficoltà della gestione del paziente. Il paziente non ha coscienza dei suoi problemi e quindi rifiuta le cure. Il guru teorico della rivoluzione psichiatrica Giovanni Jervis, che aveva voluto con sé Basaglia all’ Einaudi, che fu l’artefice del libro che rivelò Basaglia e le sue battaglie, dagli anni ‘80 in poi, quando si trattò di trasformare in realtà la legge 180, fu molto critico della sua realizzazione. Denunciò le migliaia di persone che furono abbandonate a se stesse e il dilagare degli ospedali privati sovvenzionati e non migliori di quelli pubblici. Si dissociò, quindi, e fece un percorso di profonda autocritica. Prima della sua scomparsa, nell’ultimo libro “La razionalità negata”, riflettè sulle speranze e le passioni ideologiche degli anni ‘70, ne prese le distanze e criticò l’antipsichiatria come atteggiamento antirazionalista e velleitario, che vede la follia come qualcosa di rivoluzionario.

In questo bel polverone di ideologia ed interessi, dove pullulano, oggi, tanti nuovi Istituti Psichiatrici privati ma convenzionati, dove i soldi pubblici vengono spesi senza i controlli che meriterebbero, senza bilanci sociali a testimoniare trasparenza ed efficienza, soli restano loro: i malati e le loro famiglie.

L’idea basagliana fondata sul già citato testo sacro dell’epoca “il Manuale Critico Di Psichiatria” di Jervis, vedeva la famiglia non solo come una struttura di riproduzione della forza lavoro ma come la fabbrica del fascismo quotidiano, della oppressione della donna, del terrorismo psicologico nei confronti dei bambini e dei giovani, dei valori dell’egoismo, della chiusura piccolo borghese nella dimensione del privato in contrapposizione ai valori del pubblico e del politico. La famiglia era, per i basagliani, depositaria naturale di un modello sociale borghese, di quelle norme sociali che il movimento anti-istituzionalista combatteva. Questa è la cultura responsabile delle scelte che furono fatte. Le famiglie sono state abbandonate e colpevolizzate. Generalizzando si perse di vista le tante sfaccettature dei problemi, dei bisogni e delle risposte. La famiglia fu vista come centro, nucleo del problema del disagio. Non si è creato un movimento di aiuto e solidarietà, anzi, gli si è negato tutto. La si è lasciata pericolosamente sola nella gestione dei propri malati, come testimoniano i tanti casi drammatici di violenza e morte, nella storia di questi anni. Gli si è negata persino l’informazione sul percorso terapeutico dei loro cari. In trent’anni anche l’istituto della famiglia italiana si è modificato profondamente. Una famiglia in difficoltà, quella di oggi, ripiegata su se stessa e in grave crisi rispetto alla trasmettibilità, nei confronti dei figli, di regole e valori. Anzi, da tutte le parti non si fa che puntare il dito sulla manchevolezza normativa della famiglia, della scuola e delle istituzioni in genere. Questo per testimoniare il bisogno urgente, inderogabile di una rivisitazione, di una riforma che tenga conto del clima culturale diverso, dei cambiamenti scientifici realizzati, delle nuove cure farmacologiche e psicoterapeutiche di cui dispone oggi la classe medica. Bisogna rivedere le normative riguardanti la malattia mentale. La “questione psichiatrica“ non riguarda solo una fascia di cittadini disperati e basta, ma tutti noi. Tutti noi cittadini italiani, elettori, che attendiamo di veder finalmente realizzata nel nostro amato Paese quella ”rivoluzione liberale” che ci è stata promessa. Impresa ardua, piena di ostacoli, che una cultura illiberale tenta in ogni momento di far cadere nel dimenticatoio. E’ una “ questione” non di principio ma di sostanza, legata alla vita, alla sopravvivenza di migliaia di famiglie che per troppo tempo, in nome di valori ideologici, hanno sofferto nel loro più “solitario privato”.

Dott. Daniela de giorgi

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